
Da tempo ormai, per sempre più persone, la via d’accesso privilegiata alla filosofia è costituita da un insieme di “prodotti” culturali che spaziano attraverso vari media – dai libri cartacei ai social, con tutto ciò che vi è nel mezzo – e che rispondono a forme di divulgazione filosofica caratterizzate, pur nelle differenze di orientamento, da contenuti e finalità analoghe: portare al grande pubblico un tipo di idee che possano essere messe in pratica per migliorare la nostra vita quotidiana. Possiamo chiamare questi prodotti culturali filosofie della cura di sé o self-help filosofico. Contro una filosofia come disciplina puramente accademica, ammantata di tecnicismi e impigliata in dispute che, francamente, non hanno nessun interesse per l’uomo della strada, queste filosofie della cura di sé cercano invece di essere esercizi di vita – uso qui la parola esercizio con esplicito riferimento a Pierre Hadot, uno degli auctores di queste filosofie. Non più tomi polverosi e toghe professorali, bensì parole semplici e idee chiare che tocchino gli interessi e i bisogni di tutti, e che possano fornire un orientamento in questo nostro mondo così confuso – così confuso, da non sapere nemmeno più dove collocare un sapere come la filosofia.
Devo confessare, dato che preferisco giocare con il mio lettore a carte scoperte, che nutro qualche riserva su queste forme di self-help filosofico e che, forse, esse sono per molti versi più dannose che utili. Questa affermazione può sembrare strana, specialmente a chi, addetto ai lavori o non, abbia qualche familiarità con simili progetti divulgativi e semi-filosofici: che male ci potrà mai essere, si chiederà, in qualcosa che, nel peggiore dei casi, fornirà uno spunto per riflettere o avvicinerà una persona in più ad una domanda filosofica? Ora, è chiaro che non tutto in queste filosofie della cura di sé sia male, e premetto subito che per me non si tratta di antipatia verso la divulgazione in generale; ma prima di benedire le buone intenzioni mi permetto di esaminare quali siano i mezzi con cui vengono realizzate, dato che, si sa, la via per l’inferno è asfaltata col bitume di milioni di buone intenzioni.
Se voglio esporre qualche osservazione critica verso queste forme di filosofia della cura di sé, non è dunque per una forma di elitismo snob, quanto piuttosto perché, precisamente per via della loro vasta diffusione, esse forniscono alcuni indizi significativi sull’idea che il grande pubblico si fa della filosofia in generale, di quali siano i suoi compiti, di che cosa ci si debba aspettare da essa, e di quale ruolo debba assumere il filosofo nella nostra società. Proverò a mostrare che le filosofie della cura di sé sono, sia pure in grado variabile, leggibili all’interno di uno specialissimo processo di mercificazione del sapere, un processo di mercificazione che, beninteso, non si esplica in forme rozze, volgari, “piratesche”, ma in maniera molto più sofisticata e spiritualizzata, nel quadro di un rapporto con la filosofia che è appunto quello di una – almeno apparente – critica alla mercificazione.
Il caso che potremmo definire archetipico in questa categoria del self-help filosofico è senza dubbio The School of Life, un progetto di divulgazione e pratica filosofica, successivamente organizzatasi per divenire una vera e propria compagnia internazionale di counseling filosofico, fondata nel 2008 da Alain de Botton, autore già noto dagli anni Novanta nell’ambito della divulgazione filosofica. The School of Life ha guadagnato notorietà mondiale specialmente grazie al suo canale YouTube, sul quale pubblicando regolarmente video relativamente brevi, graficamente accattivanti, semplici e chiari a livello comunicativo, ha ammassato milioni di visualizzazioni e migliaia di commenti entusiastici. Questi video includono brevi riflessioni sulla vita contemporanea (“How the modern world makes us mentally ill”), su problemi psichici o emotivi diffusi (“Why we sometimes don’t feel in the moment”, “Why we pick difficult partners”), ma anche sintesi delle dottrine dei principali filosofi, sociologi e psicologi della tradizione occidentale e non (da Confucio a Nietzsche, da Durkheim a Freud).
Mettendo momentaneamente da parte quest’ultima categoria di contenuti, sulla quale avremo modo di ritornare, una scorsa alle tematiche più frequentemente trattate da questo canale porta subito all’attenzione il carattere individualistico delle sue riflessioni e delle sue proposte filosofiche. I problemi trattati sono appunto quelli della psicologia e della vita individuale, sono problemi emotivi o relazionali nel rapporto con gli altri, o difficoltà nei nostri rapporti con noi stessi, e sono tutte questioni trattate alla luce di un assioma più o meno dichiarato, quello per il quale tutti desideriamo in qualche modo essere felici. Questa prospettiva, alla lunga, porta però a confondere, spesso in maniera acritica, la filosofia tout court con la psicoterapia, ed in ogni caso fa di problemi individuali particolari ipso facto problemi filosofici. Ora, tutto ciò agli occhi di un filosofo pone dei seri problemi, dato che si tratta di un punto di vista che presenta una gran quantità di idee o opinioni sulla realtà assunte come presupposti pacifici, laddove la filosofia consisterebbe invece proprio nella messa in discussione di questi presupposti.
Se dunque non si può negare che l’esercizio del pensiero filosofico abbia una qualche relazione con la nostra coscienza individuale, quantomeno come punto di partenza, dovrebbe essere altrettanto chiaro che la filosofia non è una mera forma di terapia intellettuale delle proprie insicurezze e dei propri problemi personali, se non altro perché essa rigetta la mia stessa esistenza individuale come un dato ovvio. Se infatti riduciamo questioni come quelle della felicità, della vita in società, della bontà verso il prossimo, ecc… a questioni di terapia di sé, stiamo eludendo il compito più propriamente filosofico, che è quello di fare un passo indietro rispetto a distinzioni apparentemente evidenti come individuo-società, felicità-infelicità, virtù-vizio ed esaminarle guardando al nostro stesso esercizio critico come a qualcosa di non ovvio e di problematico. Io non sono semplicemente un individuo che vive in una società (vedi l’ormai celebre e usurato meme “We live in a society”, divenuto sinonimo di banalità spacciata come intuizione geniale), ma sono descritto da un certo concetto di individuo, all’interno di un certo quadro di riferimento sociale, e sono tale solo in determinate condizioni culturali, giuridiche e persino materiali; senza uno stipendio, una qualche forma di stabilità economica, un tetto sopra la testa e una congrua dose di tempo libero, nessuno comincerebbe a discettare su problemi quali le tentazioni dei social media o la difficoltà di una relazione sentimentale. Così, i colti e vellutati esponenti di The School of Life, nel porsi questi interrogativi, stanno già esprimendo il punto di vista di una certa condizione sociale e di una certa idea di felicità, e non si sognano nemmeno per un istante di prendere in considerazione come problema filosofico il rapporto tra la particolarità della loro prospettiva e l’universalità delle loro asserzioni. Ovviamente, a fronte di tutto ciò, non viene nemmeno sfiorata l’ipotesi che già l’assioma della ricerca della felicità sia anch’esso un problema, e che potrebbe essere possibile che una persona possa anche non desiderare di essere felice, nel senso di rifiutare la felicità come principio guida delle proprie decisioni. Il tema della divergenza tra felicità e verità ha una lunga e interessantissima storia nell’ambito della filosofia occidentale; ma sospetto che il consumatore medio di The School of Life, così come il collaboratore medio di questa associazione, siano l’incarnazione della mentalità britannica piccolo-borghese del comfort e della serenità, una serenità che può interessare soprattutto a chi vede le sue magagne personali come problemi universali.
Come abbiamo menzionato in partenza, le filosofie della cura di sé sono a loro modo una reazione ad una visione della filosofia decisamente sbilanciata sul lato teorico e insistono quindi sulla filosofia come pratica. Nel prendere le distanze da un estremo, tuttavia, tutte queste filosofie molto pratiche cadono nell’estremo opposto, e sviluppano un’allergia ad ogni forma di teoria rigorosa che rasenta in alcuni casi l’anti-intellettualismo e che squalifica a priori tutto ciò che non è praticabile. Questo punto ci riporta alla serie di video di The School of Life dedicati ai sistemi e ai pensieri di vari filosofi (e non solo) celebri. L’anti-teoria diviene qui evidentissima, poiché chiunque abbia una seria cultura filosofica, nel vedere questi video non potrà che riconoscervi il prodotto di una conoscenza davvero superficiale e raffazzonata degli autori trattati. La rimozione di problemi più squisitamente teorici, in una disciplina fondata sulla teoria, e la scarsa conoscenza dei grandi pensatori, se non nella misura in cui essi offrono ricette e soluzioni adattabili all’individualismo di cui sopra, porta ad un eclettismo superficiale, in cui si salta di palo in frasca e in cui manca un qualunque confronto serio e ponderato con i grandi testi filosofici. Si citano Platone, Spinoza o Nietzsche, ma solo in forma aforismatica o, ancor peggio, in parafrasi indirette dei loro pensieri che li annacquano e li distorcono per fare anche di loro degli psicoterapeuti con il sorriso stampato sulla faccia. Per chiunque voglia avere un assaggio di questa maniera di procedere, mi limito ad allegare come esempio il video dedicato da The School of Life a Immanuel Kant – il quale probabilmente si sta ancora rivoltando nella tomba.
Così, accade che concetti complessi vengano rimodellati per essere ridotti a precetti di vita quotidiana e a imperativi fatti apposta per le trivialità della routine, come meditare al mattino, mettere in ordine la propria camera, astenersi dal dare risposte troppo nette, e, in generale, ad istituire dei piccoli rituali che fungano da abitudini positive. Per passare dai terapeuti d’oltremanica ad un esempio nostrano, Lezioni di felicità di Ilaria Gaspari (un libro che ha avuto un grande successo e che ha reso nota al grande pubblico l’autrice) corrisponde proprio a questo schema: si tratta di un tentativo di “concretizzare” gli insegnamenti delle scuole filosofiche greche traendone dei precetti per la vita di tutti i giorni, nell’ottica banalmente attualizzante per la quale riscoprire il pensiero antico significhi automaticamente riscoprire una certa etica – senza chiedersi seriamente se un’operazione del genere sia materialmente possibile o sensata in un mondo completamente diverso da quello in cui vivevano Pitagora e Parmenide.
Se mettiamo da parte il fatto che non ci sarebbe bisogno di scomodare gli antichi Greci o Spinoza per prendere una buona abitudine, e che non sono certo le sentenze degli antichi a rendere dal giorno alla notte più felici e più sereni, come se si trattasse di formule magiche, un approccio di questo tipo alle dottrine dei filosofi immiserisce quello che è forse l’aspetto più stimolante e desiderabile della filosofia, cioè il fatto che essa costituisca una sfida innanzitutto per il nostro intelletto, e che imparare a pensare diversamente significa confrontarsi con problemi complicati, difficili, ma proprio per questo anche affascinanti. Il fatto che queste filosofie sembrino ignorare o rifiutare domande che non siano immediatamente collegate ai bisogni della nostra vita individuale è rivelatore di una più ampia concezione egocentrica che non sa vedere al di là dei propri interessi contingenti e che non sa guardare in maniera distaccata alla situazione che la circonda, ma che rimastica tutto, compreso il suo stesso passato, solo per trarne una soddisfazione effimera e limitata basata su questo principio: “io sono insicuro, e ho bisogno di una guida”. Ammetto volentieri che la filosofia debba, in un certo senso, essere sempre qualcosa di pratico, ma ciò non significa studiare solo per capire cosa fare nella vita: studiare è una pratica, dedicarsi al pensiero, cioè accettare di mettere da parte sé stessi per ascoltare qualcun’altro, è una decisione, e coltivare le proprie capacità teoriche non è un’atto puramente teorico. La filosofia dovrebbe stare al di qua di questa contrapposizione ingenua tra teoria e pratica, dove per teoria si intendesse una sorta di smarrimento in un mondo di astrazioni e fantasmi.
Con ciò veniamo anche al legame che c’è tra le varie filosofie del self-help e la concezione del filosofo che esse veicolano. Per gran parte della storia occidentale il filosofo costituiva la figura di una vita dedicata al pensiero contro le opinioni e le valutazioni dei più, e ciò ha fatto sì che il filosofo venisse identificato come qualcosa a metà fra l’asceta e il depositario di sapienze segrete – e ciò anche a prescindere dall’immagine che i filosofi stessi avevano del loro operato. Per contro, nel mondo contemporaneo e soprattutto all’interno delle filosofie della cura di sé, si è gradualmente imposta l’idea del filosofo come dispensatore di consolazione e sicurezza, come maestro dell’accettazione di sé e persino come portavoce di opinioni “condivisibili” o a vario titolo in voga; dalla stigmatizzazione del consumismo moderno alla difesa degli animali, dalle filippiche contro la repressione sessuale alle orazioni in lode del multiculturalismo, non c’è idea alla moda che non abbia avuto la sua decorazione al merito appuntata da un philosophus quendam. Qui non c’è più un severo ascetismo e una rigida disciplina intellettuale, ma una più prosaica arte di venire a patti col mondo e con noi stessi, e ciò a sua volta si vuole esprimere attraverso una certa immagine della vita umana.
A mio avviso si tocca qui un punto decisivo per comprendere il motivo reale del successo di queste filosofie, ovverosia il processo di estetizzazione del pensiero e della trasformazione del filosofo in profilo: uso questa parola, tratta dal lessico dei social media, non a caso. Non si cerca più un contenuto, un’idea, una sfida al proprio pensiero, ma un’immagine, anzi meglio un insieme di immagini legate da un motivo comune, cioè appunto un profilo, una certa maniera di presentarsi, una certa esibizione della filosofia come modello guida predefinito nei suoi tratti fondamentali e pienamente integrato con le opinioni esistenti e diffuse. L’idea del filosofo come profilo si può anche esprimere, se vogliamo, come l’idea di un filosofo in perenne campagna pubblicitaria. Non intendo qui il termine pubblicità nel senso restrittivo di promozione a fini commerciali di un determinato prodotto in vendita, quanto piuttosto come promozione di un ruolo che, appunto, dipende dall’approvazione, dal seguito e dal continuo feedback del pubblico, dell’audience a cui si rivolge. La filosofia, come disciplina considerata da un punto di vista specialistico, ha limiti oggettivi molto pesanti quando si tratta di un suo “adattamento” a dinamiche pubblicitarie, alla sua trasformazione in profilo, poiché tratta di molti argomenti che, semplicemente, non suscitano lo stesso interesse di altri prodotti o categorie di prodotti – tanto per chiarirci, decine di migliaia di persone possono attendere con ansia il prossimo film della Marvel ma non altrettante saranno così su di giri nell’attesa del prossimo libro di Peter Sloterdijk – ed è anche per questo che le filosofie della cura di sé, che non si tirano mai indietro davanti all’utilizzo dei social e davanti alla propria auto-promozione, cercano di fornire un’immagine della filosofia che sia svincolata dagli aspetti più propriamente accademici e che sia invece “popolare”, se non altro in quanto non incompatibile con i fenomeni di massa; non è, nella stragrande maggioranza dei casi, un’atmosfera in stile Scuola di Francoforte, dove domini l’idea di una critica serrata alla società di massa e una radicale diffidenza per tutti i fenomeni culturali alla moda. Queste filosofie cercano di rimuovere tutto ciò che è a vario titolo irritante, emotivamente difficile da recepire, scoraggiante, e ciò risulta evidente dal carattere stesso che assumono i profili di questi filosofi. Per citare ancora una volta il caso di Ilaria Gaspari, è quantomeno straniante leggere un’intervista da lei lasciata a Rolling Stone, che è anche una buona summa dei topoi essenziali del self-help filosofico; già l’introduzione fatta dall’intervistatore inquadra molto bene il tipo di profilo che il pubblico del giornale cerca nella parola “filosofo”:
Dice di aver perso un sacco di tempo nella vita, ma scorrendo la sua biografia la trovate piena zeppa di libri, pubblicazioni, lezioni, conferenze, interviste e chi più ne ha più ne metta. E Ilaria Gaspari non ha ancora 34 anni. È una filosofa in ascesa della nuova generazione – non ditele che è giovane, sarebbe troppo paternalistico – e non ha per nulla l’aria ombrosa (lei direbbe “pesantona”) a cui ci hanno abituati i suoi colleghi: sempre sorridente, con vestiti sgargianti e quel rossetto scintillante che mette in mostra una orgogliosa vanità femminile.
Il filosofo, anzi in questo caso ancora meglio la filosofa, deve essere un esempio di positività, di solarità, di simpatia, deve esser ben lontano dall’aspetto noioso e “pesantone” del professore togato. Ilaria Gaspari viene presentata come una persona con cui tutti potremmo trovarci d’accordo, come una ragazza semplice e alla mano che ama il suo cane e le belle passeggiate. Laddove, nel corso dell’intervista, si parla di argomenti più propriamente filosofici, e non delle sue difficoltà di donna in un mondo accademico dominato da uomini – fatto quest’ultimo innegabile, ma che certo merita riflessioni un po’ più serie dei soliti quattro soldi morali pagati pro forma al femminismo – si citano, ovviamente, i Greci, Spinoza e un aforisma di Montesquieu. Il filosofo greco più attuale, per Gaspari, è Diogene il Cinico, che viene descritto in termini imbarazzanti:
Spregerebbe i social spaccandoli in mille pezzi, ma il suo pungolo sarebbe fondamentale. Lui è una specie di punk ante litteram. Di scuola socratica. Solo che Socrate andava in giro a chiedere alla gente per farla ragionare. Diogene invece era molto più urticante. Voleva mettere in crisi il conformismo, quindi dare scandalo mostrandosi anticonformista. Ci farebbe notare tutte quelle cose a cui siamo disposti a conformarci in maniera acritica.
“Tutte quelle cose a cui siamo disposti a conformarci in maniera acritica” è una dicitura che potrebbe anche includere, tanto per fare un esempio, l’uso dei termini “rock” o “punk” per descrivere un uomo vissuto e morto duemila anni fa, pur di racimolare un po’ di interesse, oppure mettere in discussione il conformismo della società moderna – una predica sentita e risentita cento volte.
Vale la pena di menzionare, per dare a Cesare quel che è di Cesare, che tutte queste filosofie della cura di sé sono formalmente opposte alle banalizzazioni della filosofia a scopo commerciale così come al self-help da manager impegnati che promette miracoli in breve tempo. Tuttavia, le modalità in cui cercano di porsi al di sopra di simili superficialità sono a loro volta superficiali, si esprimono in asserzioni e terminologie alquanto povere e ripetitive, che in ogni caso eludono costantemente di sottoporre i propri modelli di riferimento ad una riflessione seria, cioè una riflessione che prenda sul serio i pericoli di idee apparentemente banali. Non essere conformisti, non farsi travolgere dall’idolatria per il lavoro e la produttività, coltivare il proprio equilibrio emotivo, non demonizzare la nostra sessualità, ecc… sono tutte cose molto belle dette così, ma sono anche slogan che possono adeguarsi senza problemi a sistemi sociali che preservano implicitamente proprio ciò che in essi viene stigmatizzato. L’anticonformismo diventa a sua volta una forma di conformismo, la critica della mentalità iper-produttiva diventa il motto del capitalismo etico, dell’illusione della produttività che si sposa con i bisogni interiori – e con più “morbide” forme di sfruttamento – , coltivare la propria emotività diviene a sua volta una forma di auto-controllo minuzioso e tirannico, l’aspirazione ad una sessualità non repressa e libera diventa un nuovo principio in base al quale rifiutare nuove forme di “devianza” sessuale – chi ha stabilito, del resto, che la repressione sia sempre “malata”? Ma una messa in questione di tutti questi aspetti, in un senso o nell’altro, manca completamente…
Da qualche parte Adorno parla del fenomeno per cui certi oggetti che hanno primariamente una funzione legata alla produzione artistica e ad una sua fruizione attiva, divengono nella società borghese oggetti principalmente ornamentali, che servono perlopiù a segnalare un interesse del proprietario verso l’arte e la cultura; l’esempio da lui fatto era quello del pianoforte che, da strumento musicale presente in tutte le case dei ricchi per permettere ai figli di imparare a suonare o agli ospiti che ne fossero capaci di improvvisare, diviene un costoso soprammobile, una cosa che si ha in casa per dimostrare che si è degli appassionati di musica, anche quando non si sappia suonare nemmeno un accordo. Le filosofie della cura di sé, che pure non possono essere accusate di gretto opportunismo o di disonestà intellettuale, sono però una manifestazione molto diffusa e significativa della trasformazione della filosofia in soprammobile culturale. Mancando il quadro di riferimento all’interno del quale comprendere le potenzialità di una scienza altamente teorica, non legata ad un oggetto materiale ben individuabile, rimane semplicemente il fascino estetico di questa disciplina, il lato “fashion” del pensiero, la tranquillitas animi come contenuto instagrammabile. L’unico obbiettivo concepibile e l’unica utilità identificabile nella filosofia diviene quella di un calmante non-farmaceutico, diviene, tanto per citare di nuovo il titolo di un video di The School of Life, la capacità di tranquillizzare noi stessi e gli altri non diversamente da come si tranquillizza un neonato: to soothe yourself and to soothe others.
Che l’esigenza per una cultura tranquillizzante e analgesica dipenda da un gran numero di fattori, pochi dei quali hanno davvero a che fare con la filosofia in quanto tale, significa che l’emergere di queste tendenze è in un certo senso inevitabile, e dunque accetto che vi siano anche pseudo-filosofie basate su questi presupposti come un effetto di un processo più vasto. Ciò nondimeno ritengo che sia necessario ribadire che la filosofia non è essenzialmente questo, e che, quand’anche la tranquillità e la felicità possono benissimo essere una conseguenza dello studio della filosofia, non c’è affatto bisogno di mettersi a filosofare per essere felici; lo stesso Kant, così maltrattato nel video di cui sopra, notava non senza ragione che la felicità, propriamente, ha a che fare con una serie di elementi pragmatici e soggettivi sui quali la filosofia non ha nulla da dire: per essere soddisfatti di sé, per trovare gioia in quello che si fa, non serve aver letto la Critica della ragion pratica. La filosofia, insomma, non è un sostituto del prozac – e l’allusione è qui ad un mediocre libro di Lou Marinoff sempre collocabile nell’alveo del self-help.
Per concludere vorrei citare le parole di un professore di filosofia, Hans-Georg Moeller – ahinoi, proprio uno di quei terrificanti pesantoni! – il quale, in un video in cui ha criticato con grande acutezza e puntualità uno dei riassunti di The School of Life dedicato a Lao-Tze (qui il link), ha chiarito come meglio non si poteva il difetto di queste prospettive:
Quando ho visto [il video su Lao-Tze n.d.r.] mi ha ricordato il famoso detto di Marx sulla funzione della religione, che è un oppio per il popolo, e in un certo senso sembra che la filosofia orientale, o questa rappresentazione della filosofia orientale, assolva una funzione simile, che anch’essa funga da oppio per una gran parte del pubblico, specialmente occidentale ma sempre di più ormai globale. Ora, un po’ di oppio, di tanto in tanto, può non essere la cosa peggiore, se sei molto stressato e così via; non direi che questo di per sé sia il problema. Il problema è quando hai solo oppio.