
Tra la fine dell’evo antico e i primi secoli del medioevo, in concomitanza con il diffondersi del monachesimo, sorse un particolare genere letterario chiamato “agiografia”, ovvero il racconto delle vite dei Santi della Chiesa. Le agiografie, che venivano scritte per precisi motivi religiosi e pastorali, non erano concepite come biografie “realistiche” – almeno nel senso in cui si intenderebbero oggi; non rispondevano ad un interesse erudito o ad un fine moralmente edificante, come le biografie di Plutarco, né erano composte come opere di propaganda politica, come ad esempio la vita dell’imperatore Costantino di Eusebio di Cesarea. In queste opere, ciò che assumeva importanza primaria era la descrizione di un certo individuo come testimone della verità dell’insegnamento di Cristo e come capace di operare portenti derivati dalla forza della fede. In altre parole, come un uomo o una donna potessero, a loro modo e in contesti diversi da quelli di Cristo, ripetere i suoi miracoli e confermare, così, la sua divinità.
Rileggere oggi queste opere può fare uno strano effetto, soprattutto perché gran parte degli eventi miracolosi da esse descritte hanno un valore simbolico rintracciabile in precisi riferimenti biblici che per noi risultano alquanto oscuri e che sono paragonabili alle sottigliezze allegoriche dei passi più ardui della Divina Commedia – un’opera che a sua volta ha tratto molto dalle agiografie medioevali. Ciò nondimeno, molte vite di santi erano lette con grande passione e reverenza nei secoli passati, specialmente quando si trattava di santi estremamente vicini alla devozione popolare come San Francesco, la cui agiografia, la cosiddetta Legenda maior, fu scritta da un teologo di primo piano come Bonaventura da Bagnoregio.
L’epoca in cui viviamo sembra essersi lasciata alla spalle molti aspetti delle religioni tradizionali come cosa passata, e la credenza in santi e miracoli è oggi relegata in buona parte agli eccentrici e ai sempliciotti. Per la maggior parte della gente non è più possibile avere fiducia e rispetto in personaggi che si presentano in TV difendendo i miracoli della Madonna di Lourdes o quelli di un pastore metodista che sostiene di aver parlato con gli angeli in un’esperienza pre-morte. Con ciò non si vuole dire che fenomeni del genere siano scomparsi o del tutto irrilevanti, e ciò è testimoniato dal fervore suscitato dalle polemiche intorno a questi argomenti. In Italia, dove nella devozione popolare questi aspetti hanno conservato un ruolo molto importante, a tratti centrale, ciò è vero a maggior ragione. Tuttavia in un mondo come il nostro vi è una nuova categoria di Santi che possono essere venerati da tutti a prescindere da qualunque professione di fede o di incredulità, si tratta di coloro che potremmo chiamare gli Eroi del tardo capitalismo, ed anch’essi hanno le loro agiografie.
Innanzitutto una precisazione: chiamo “tardo capitalismo” la fase economica e sociale nella quale ci troviamo attualmente per distinguerla sia dalla parola “capitalismo” nel senso più generico del termine, sia dal capitalismo industriale o early capitalism, quello legato ai settori produttivi del secondario, in cui la fisionomia stessa delle nazioni e delle economie moderne era in fase di trasformazione e adattamento rispetto alle nuove esigenze del sistema economico, e in cui l’aspetto conflittuale e ostile del rapporto tra proprietari e lavoratori era evidente: insomma, il capitalismo dei romanzi di Charles Dickens, dove David Copperfield chiede un altro mestolo di minestra al sorvegliante cattivo e in cui il capitalista, in finanziera e cilindro, sbatte i piedi impaziente e guarda stizzito al suo orologio da taschino quando uno degli operai è in ritardo. L’espressione “tardo capitalismo” descrive piuttosto una fase matura del sistema economico capitalista e la sua collocazione in un contesto sociale che, almeno nei paesi più ricchi del pianeta, è improntato ad un certo liberalismo e ad un formale rigetto dei metodi brutali e sfruttatori dei primi tempi. Si tratta dunque di un capitalismo legato soprattutto al settore terziario, dove la tecnologia gioca un ruolo ancora più decisivo che nel capitalismo industriale, e in cui anche precisi principi etici sono divenuti parte integrante dello schema di produzione e di consumo: si cercano di rendere i luoghi di lavoro gradevoli, rassicuranti, dotati di aree relax e di spazi di aggregazione, si cerca di rendere la produzione o la prestazione lavorativa compatibile con le preoccupazioni dell’ecologia e dell’ambiente, si vendono prodotti che salvaguardano la foresta Amazzonica o la biodiversità marina, si legano sempre di più le attività lavorative e quelle dei consumatori a valori positivi e incoraggianti – la pubblicità della Nike che afferma “Impossible is nothing” o quelle delle catene di cosmetici che sostengono l’inclusività e i diritti delle comunità LGBTQ+. La figura stessa del datore di lavoro, dell’imprenditore, cambia radicalmente rispetto a quella dell’arcigno proprietario di fabbrica o del condiscendente filantropo borghese: sul tema del capo postmoderno, amichevole e informale, e di come, implicitamente conservi le dinamiche e le gerarchie essenziali del capitalismo, Slavoj Žižek ci ha fornito un ottimo riassunto, a cui rimando. Piccola nota a margine: lo sfruttamento spietato del capitalismo industriale non è scomparso nel nulla, aggiustato dai compromessi e dai negoziati che sono alla base dello stato di diritto nelle democrazie occidentali contemporanee, ma è stato semplicemente appaltato a intere nazioni del terzo mondo, centuplicato qualitativamente e quantitativamente. Con ciò, ovviamente, non dico nulla di particolarmente nuovo.
Ciò che è importante tenere a mente è che il tardo capitalismo è un’epoca in cui l’ascetismo di stile protestante ha lasciato spazio ad una visione decisamente più attraente del lavoratore e dell’imprenditore, una visione in cui l’imprenditore di successo è quasi un artista: le qualità che deve mostrare sono la creatività, l’inventiva, la capacità di adattamento alle esigenze della gente, l’intuito per saper cogliere queste esigenze, persino laddove il pubblico stesso non ne sia ancora consapevole: il grande imprenditore è quello che ha messo sul mercato una cosa di cui tutti avevano bisogno senza essersene mai resi conto prima d’allora. Coloro che hanno incarnato in massimo grado questa immagine, sono assurti al ruolo di veri e propri eroi, se non altro come figure di riferimento e di ispirazione. Non a caso, si tratta di personalità legate a brand la cui diffusione e notorietà è tale da essere diventati delle vere e proprie superpotenze economiche a sé stanti, delle presenze ormai planetarie.
Un’azienda di successo può ottenere una notorietà più o meno duratura, a seconda della personalità cui fa riferimento e delle circostanze in cui opera, ma quando un’impresa raggiunge i livelli di Apple, Nike o Amazon, quando i suoi CEO ammassano fortune immense, le figure di riferimento di quel brand acquisiscono uno status quasi leggendario agli occhi del pubblico, che ormai è allo stesso tempo la base di acquirenti – potenziali o effettivi – di quel brand. Quando ciò accade, l’interesse generale spinge per conoscere meglio le personalità che hanno fondato e dirigono quell’azienda o quel brand, sempre più persone vogliono capire i segreti del loro successo. Così compaiono le biografie di questi Eroi contemporanei, le quali divengono a loro volta fenomeni di massa. Il caso editoriale più celebre in questo genere di libri è senza dubbio la biografia di Steve Jobs scritta da Walter Isaacson, la quale nel 2011, anno della sua uscita, fu uno dei libri più venduti negli Stati Uniti vendendo 379.000 copie solo nella prima settimana – numeri del genere sono stati sorpassati in tempi recenti solo dai libri della coppia presidenziale Michelle-Barack Obama. Ad oggi ogni negozio di libri ha almeno uno scaffale popolato dalle biografie di personaggi di quel calibro, e anche se non si tratta sempre di opere la cui fortuna editoriale è paragonabile a quella dedicata al fondatore di Apple, si tratta in ogni caso di biografie di vasta diffusione, perennemente ristampate, acquistate e lette, ed entusiasticamente recensite. Tanto per fare un altro esempio noto, l’autobiografia di Phil Knight, patron della Nike, tradotta in italiano col titolo L’arte della vittoria (il titolo originale, Shoe Dog, rimanda ad uno slang che descrive i lavoratori nelle fabbriche di scarpe), è stata lodata come una onesta descrizione dei sacrifici imposti dalla vita dell’imprenditore sia da Warren Buffet che da Bill Gates; le preferenze e gli elogi letterari di quest’ultimo, in linea di massima, sono un’ottima cartina di tornasole sui gusti del pubblico di massa tardo-capitalista, cioè della maggioranza delle persone che comprano libri. Ma ovviamente non si parla solo di libri, poiché da questi ultimi spesso e volentieri vengono tratti dei film con produzioni notevoli e cast stellari; si potrebbe anzi affermare che la fisionomia generale della vita del grande imprenditore/artista/innovatore si sia adattata così bene al grande schermo che abbiamo assistito anche a pellicole con sceneggiature originali annoverabili nel medesimo genere, come The Founder, il film basato sulla scalata al successo di Ray Kroc – quest’ultimo interpretato da un magnifico Michael Keaton, un’interpretazione che forse regala perfino troppo al personaggio reale del creatore di McDonald’s come la conosciamo oggi, un uomo che, da quel poco che ci rivelano le interviste dell’epoca, appariva come un piccolo businessman di provincia con un tono da imbonitore.
Un elemento costante di queste biografie, cartacee o cinematografiche, è il rifiuto sistematico di idealizzare gli uomini di cui parlano. Nelle agiografie medioevali si insisteva soprattutto sugli eventi miracolosi delle vite dei santi; le loro debolezze e i loro difetti erano citati solo per raccontare come se ne fossero liberati attraverso il pentimento e una vita dedicata alla fede per redimersi. Si menziona il passato da prostituta di Santa Maria Egiziaca, ma solo per rendere evidente la necessità della sua rottura col mondo e il suo ritiro nel deserto. Nel caso delle biografie dei grandi maestri del tardo capitalismo, al contrario, i lati più umani, gli aspetti più controversi delle loro vicende lavorative e persino i lati sgradevoli del loro carattere personale non sono mai taciuti, sono anzi parte essenziale del racconto. Si parla a lungo della capacità visionaria e della passione di Steve Jobs per il proprio progetto, ma si parla anche del suo rapporto difficile con la compagna Chrisann Brennan, dell’ambizione che spesso lo rendeva spietato e opportunista, del conflitto con Steve Wozniak, contributore decisivo allo sviluppo di Apple. Tutto ciò non ingenera nel lettore, che pure può biasimare questo o quel lato della vita del personaggio in questione, una presa di distanze, ma aiuta al contrario a porre il grande uomo sullo stesso piano dei comuni mortali, a dare l’impressione che si stia esponendo la vita di un imprenditore di successo senza finzioni e foglie di fico, nella sua cruda realtà. Potremmo quindi pensare che simili biografie siano in effetti diametralmente opposte alle agiografie, che per definizione cercano invece di fornire un’immagine trasfigurata della persona di cui parlano: a tale proposito credo si possa osservare che i mezzi sono invertiti ma il ruolo di queste opere è analogo. Se le agiografie di un tempo presentavano esempi di fede che si manifestavano attraverso azioni straordinarie, e che separavano un certo individuo dalle persone comuni, le agiografie moderne presentano esempi di fiuto per gli affari che devono trovarsi in uomini in carne e ossa, imperfetti e “reali”, che hanno successo in un mondo, quello della competizione e dell’economia di mercato, in cui la crudeltà e l’ambizione sono necessità. Le agiografie di un tempo santificavano con la perfezione, le agiografie di oggi santificano non santificando. Le agiografie del tardo capitalismo hanno infatti due funzioni implicite, che sono all’opera anche al di là degli intendimenti dei singoli autori: in primo luogo, di rendere credibili le storie che esse raccontano dimostrando appunto che uomini non esenti da difetti, a tratti persino spregevoli, sono riusciti ad avere successo con la tenacia e il duro lavoro, eliminando così, per quanto possibile, l’idea che grandi fortune possano venir accumulate per mezzo di una serie di squilibri e ingiustizie strutturali del sistema stesso più che per mezzo di particolari meriti personali, e rendendo allo stesso tempo più “naturale” il fallimento di coloro che invece non hanno dimostrato le stesse qualità di questi uomini – per ogni Ray Kroc o Jeff Bezos ci sono stati altri mille aspiranti miliardari finiti a fare i cassieri in qualche negozietto di provincia o i Napoleoni in qualche manicomio. In secondo luogo, queste opere suscitano l’impressione che il sistema economico sia, per quanto spietato e pieno di rischi, sostanzialmente equanime, e che non c’è nessuno che non possa tentare la propria fortuna cercando di realizzare i propri sogni, che chiunque creda di avere un’idea potenzialmente vincente può gettarsi nella mischia e provare a realizzarla, confermando così la legittimità del sistema stesso, preservandone il funzionamento senza metterne in dubbio i malfunzionamenti.
Se nel tardo capitalismo, per processi autonomi e del tutto svincolati da precise esigenze letterarie e storiche, quanto piuttosto per un intrinseco interesse verso il mistero del successo, si producono opere analoghe alle agiografie cristiane, sarà allora legittimo chiedersi se questa similitudine non equipari il capitalismo come sistema economico ad una religione. Questa equazione è già stata tentata in passato, ad esempio da Walter Benjamin, e non senza buoni motivi. Si tratta tuttavia di una equivalenza – o almeno di una proporzione matematica – a mio avviso insostenibile nei suoi elementi fondamentali, che richiederebbe la definizione di uno schema generale della religione come pratica, ancora prima che come insieme di dottrine, cosa di per sé già problematica. Non voglio, in questa sede, soffermarmi su questo problema assai complicato, ma mi limiterò a questa osservazione, che si ricollega all’analogia tra agiografia e biografia dell’uomo d’affari esemplare: il capitalismo, più che essere divenuto esso stesso una religione, è una prassi di produzione e consumo che, per legittimarsi, per sostenere la propria deduzione trascendentale agli occhi di coloro che già ne fanno parte come attori, deve costantemente appropriarsi di forme concettuali tratte da altri settori della vita umana, dalla religione come dalla politica, dalla filosofia così come dall’arte – e abbiamo già visto come nel tardo capitalismo si cerchi di istituire un nesso tra l’imprenditore e l’artista; non è un caso che Walter Isaacson, l’autore della Vita Sancti Stephani Jobs, abbia scritto anche una biografia di Leonardo da Vinci, l’artista per antonomasia che assomma in sé anche la figura di genio dell’ingegneria e di inventore avveniristico.
Le biografie-agiografie dei grandi capitalisti contemporanei non assumono l’aspetto di agiografie rovesciate perché vogliono indurre alla venerazione i lettori, ma perché vogliono legittimare ai loro occhi un modello: con mezzi diversi cercano un risultato simile. Secondo uno schema del tutto analogo, un libro che si presenti come opera di argomento filosofico può parlare del distacco emozionale e dell’autocontrollo come idee attraenti per i manager di oggi, una teoria politica può presentare la società come necessariamente composta da imprenditori e lavoratori che, come gruppi di persone sullo stesso piano, devono trovare un’intesa per beneficiare gli uni gli altri e tenere in moto l’economia, un designer di talento può mettere le sue capacità grafiche al servizio di un grande brand per fornire un’aspetto personalizzato ed originale ai suoi prodotti e portare così avanti una “battaglia estetica” contro l’anonimato del consumo di massa, e uno scrittore può vedere in Steve Jobs un nuovo Leonardo da Vinci e scriverne una biografia piena di anti-miracoli.
Le agiografie del medioevo, pur rientrando anch’esse in un processo di legittimazione della Chiesa come istituzione positiva, erano pur sempre scritte all’interno di un quadro religioso, e la religione rimanda sempre a contenuti che non sono completamente dominabili da un’istituzione o da uno stato, a qualcosa che eccede le regole ordinarie della vita umana – e, per i lettori dell’epoca, anche quelle fisiche e naturali dell’universo – e in tal senso erano sempre portatrici di un elemento mistico, di una descrizione di possibilità impensate, di una promessa di qualcosa di diverso dal mondo conosciuto. Le agiografie contemporanee non rimandano più a contenuti trascendenti, schiudono solo in apparenza una visione diversa, ma rimangono completamente all’interno degli assiomi del comune modo di pensare dell’umanità ridotta a massa di consumatori, le valutazioni che esse presuppongono sono quelle che tutti già accettiamo: l’economia e l’impresa trainano la società, la cosa più importante è il lavoro, un prodotto che viene comprato da tanti è effettivamente un prodotto di qualità, l’intelligenza e la creatività umane hanno senso solo quando servono a fare soldi, ecc…
Steve Jobs non ha compiuto alcun miracolo, ma bisogna ammettere che lo Steve Jobs di Walter Isaacson compie quotidianamente quello di farci credere entusiasmante qualcosa di estremamente prosaico e spesso persino avvilente. Le agiografie del tardo capitalismo non sono, ovviamente, un cumulo di falsità, ma c’è anche una maniera inadeguata e ingiusta di presentare la verità. E del resto l’interesse del pubblico verso simili argomenti è più che legittimo. Se dunque vogliamo davvero conoscere il segreto del successo di questi Santi continuiamo pure a pubblicarne le vite, ma nello stesso libro, alla fine, aggiungiamo la vita del dipendente medio delle loro aziende, la quale rappresenta forse la deludente verità celata dietro i grandi successi di questi uomini.