
Chissà a cosa pensava Heinrich von Kleist in quel freddo giorno di fine novembre, mentre guardava lo sciabordio inquieto dell’acqua del Wannsee. Chissà a cosa pensava colei che aveva deciso di accompagnarlo in quell’ultimo, estremo passo, Henriette Vogel. Sarebbe forse indecoroso, inopportuno che persone che si reputano nel novero dei “sani”, che sentono senz’ombra di dubbio di far parte della famiglia umana si mettano a indovinare i pensieri di un suicida; è molto facile mettere in testa a coloro che hanno compiuto un simile gesto un dolore che non hanno vissuto, una rabbia che non hanno mai provato, uno psicotico e malsano isolamento nel quale, a dire il vero, non si sono mai trovati. Anche se il dolore, la rabbia, l’isolamento in qualche modo ci sono stati. Heinrich avrebbe potuto trovare molti buoni motivi per continuare a vivere, per cambiare direzione, adattarsi alle circostanze e lasciar perdere il vicolo cieco in cui si trovava, non era senza capacità e senza intelligenza; e ciò nonostante preferì darsi la morte. Forse l’orgoglio gli impediva di cambiare idea: era sempre stato molto orgoglioso. O forse sentiva il dovere di fare della propria vita un atto di accusa. Caricò la pistola – lo sapeva fare bene, aveva imparato da ragazzo, quando si era arruolato giovanissimo nell’esercito prussiano -, preparò il colpo, forse esitò ancora un istante, o forse no. Fece fuoco. Henriette era morta, come aveva desiderato, come lei gli aveva chiesto, in segreto, con gli occhi appannati dalle lacrime, perché sapeva che un male inguaribile la divorava dall’interno, che solo la più miserabile delle sofferenze la attendeva. Il secondo colpo era per sé stesso.
Per la sensibilità di oggi, in cui di solito la poesia è ritenuta soprattutto opera del sentimento, dell’emotività, dell’esperienza vissuta o simili, può apparire strano, quasi imbarazzante che i più grandi scrittori e poeti tedeschi – ciascuno per varie vie e a suo modo – siano stati così attaccati ad una elaborazione teorica dell’arte, ad una cultura che si nutriva spesso di letture molto ardue e perfino aride. Ma chiunque conosca la storia della letteratura non si sorprenderà di certo: Dante, nella sua famosa lettera a Cangrande della Scala nella quale, se ci si passa l’espressione, spiega il significato della Divina Commedia (all’epoca ancora solo Comedia) a questo munifico protettore, non ricorre a rimembranze intimistiche e a garbugli psicologici; non fa altro che citare Aristotele e la Bibbia, quasi che le sue opere fossero un derivato necessario, fisiologico della lettura della Metafisica. Shakespeare, più mobile e volubile nei suoi interessi, non disdegnava la lettura di libri francesi e di novelle italiane, cioè di cose considerate ai suoi tempi emerite frivolezze, e che oggi non avrebbero nemmeno diritto di cittadinanza nei Manuali storici se non fosse per il Bardo stesso, che le ha nobilitate traendone fuori drammi magistrali. In Kleist troviamo entrambe le tendenze. Rigorosi studi di filosofia e storia, uniti a letture di storie popolari e di racconti di cronaca spesso dozzinali. Non c’è dubbio però che un libro tra tutti gli scavò nel cuore e nell’intelletto, un libro spezzò qualcosa dentro di lui: la Critica della Ragion Pura, letta da Heinrich vent’anni dopo la sua prima pubblicazione, ed interpretata in una chiave decisamente radicale e pessimistica, un’interpretazione che, in ogni caso, coglie qualcosa di più profondo e decisivo di molti mediocri seguaci accademici di Kant – non è un caso che un altro grande “scolaro” della prima Critica, Fichte, avesse dichiarato solennemente che l’intera epoca presente aveva frainteso Kant. L’elemento fondamentale che Kleist trasse dalla lettura di Kant fu che la verità, nel senso più classico e alto del termine, sia inconoscibile. Non tanto per il fatto che la verità sia qualcosa di troppo sublime per essere compreso dai nostri poveri intelletti umani, ma perché è troppo facile confonderla col mero fenomeno, con la semplice apparenza soggettiva; non è troppo lontana, ma troppo vicina, non è troppo pura, ma troppo sporca, troppo mescolata col gioco illusorio delle sembianze, delle opinioni transeunti, dei desideri nascosti. L’opera matura di Kleist è un commento continuo a questa presa di coscienza, in maniera analoga a cui l’opera di Dante è un grandioso commento ad Aristotele e alla teologia cristiana.
C’è una poesia di Kostas Karyotakis, altro grande poeta morto di sua stessa mano, che è forse la descrizione più fedele, più delicata degli ultimi momenti di un suicida. C’è sempre un disagio con sè stessi nel decidere di suicidarsi, un disagio che deriva dalla paura di essere derisi, villaneggiati post mortem da chi non capisce. Chi ha un po’ di buon senso sa che vi è sempre il rischio di sfociare nell’assurdo togliendosi la vita, di diventare imbarazzanti. In fondo, qualunque motivo si possa avere, quella di ammazzarsi è un’idea un po’ comica; la vita specialmente in momenti estremi, sa sempre offrire qualche palliativo, qualche consolazione, qualche dolcezza a compenso del dolore e dell’umiliazione. Se nel momento estremo il suicida si confessasse con qualcuno di “sano”, questi potrebbe sempre sminuire le sue motivazioni, riderci sopra, cercare di convincerlo che, dopo tutto, la sua vita non è così brutta, che ci sono tante persone a cui va peggio… Ma l’inesprimibile impossibilità della vita, per il suicida, rimane lì, inascoltata, inosservata, mandata via come un postulante sgradito ad una festa.
“La loro vita è stata una tragedia, dicono.
Dio! Lo spaventoso ridersela della gente,
E le lacrime, e il sudore, la nostalgia
dei cieli, la solitudine del paesaggio…“
La guerra del 1792 dichiarata contro la Francia rivoluzionaria da tutte le potenze d’Europa fu un conflitto particolarmente sgradevole. Goethe, che fu un testimone d’eccezione e di rara imparzialità, descrive molto bene la disorganizzazione della spedizione, le squallide condizioni in cui marciavano, combattevano e vivevano i soldati del Duca di Brunswick. Fu la prima esperienza di guerra del giovane Kleist: venendo da una famiglia di alta e antica nobiltà, era già un sottufficiale e pertanto era trattato un po’ meglio di un soldato semplice. Ma era pur sempre un ragazzo di sedici anni, gettato dalla morte prematura dei genitori in un mondo freddo, sporco, violento, impietoso. Un mondo ancora più impietoso agli occhi di un ragazzo di rara intelligenza e sensibilità, una ragazzo che notava cose che gli altri non notavano, che intuiva dettagli invisibili ai più, che sentiva moltiplicata per cento la sofferenza di chi si trovava in quel pantano. Esperienze del genere sono una scuola innaturalmente rapida per menti fini: un altro giovane ufficiale, molti decenni prima, in situazioni non molto diverse, aveva imparato lezioni che altri impiegano anni di stenti e fatiche a digerire – da lì vennero fuori i Pensieri di Vauvenargues, stoico erede di Pascal tagliato nell’acciaio. Per Kleist, tuttavia, la vita mondana e, come usava dire all’epoca, il Bel mondo, furono un campo d’osservazione e di sperimentazione non meno colmo di motivi per diffidare dell’umanità: le lettere che scrisse dal suo soggiorno a Parigi, sulla cultura francese e sulla completa immoralità dell’alta società parigina, sono significative. Come molti scrittori e intellettuali delusi (o disgustati) dalla vita di società, anche Kleist coltivò qualche rousseauiana velleità di ritorno alla natura, alla vita semplice, il progetto di una vita nascosta in una casetta sperduta tra le valli della Svizzera: non ci soffermiamo su ciò, inutile dire che questi porgetti non ebbero successo, che anche il ritorno alla tranquillità della natura gli fu negato. In un certo senso, siamo debitori verso questo fallimento: fu proprio esso la spinta propulsiva che gettò Heinrich nel vortice della creazione artistica, una spinta che lo diresse soprattutto e primariamente verso il teatro. Se però Kleist è tutt’oggi ricordato soprattutto come drammaturgo, egli è parimenti grande come narratore, pur avendo scritto solo una manciata di racconti che non superano mai le cento pagine – la sua indole impetuosa, la vibrante mobilità della sua ispirazione lo costringevano ad un’assoluta disciplina nello scrivere, ad una lucidità e ad una parsimonia nel dosare gli elementi del suo stile che, con ferrea consequenzialità, gli impedivano progetti di ampio respiro, comodi romanzoni in cinque o sei volumi in ottavo pieni di tante belle conversazioni edificanti, di descrizioni naturalistiche e di digressioni storiche che allungavano il brodo di molti autori mediocri in voga all’epoca. Nell’animo di Kleist si agitavano tempeste spaventose (in questo egli ebbe senza dubbio una sensibilità romantica) ma ciò che giungeva sulla pagina era composto, ordinato, equilibrato, privo di qualsiasi abbellimento barocco; la sua prosa possiede un’essenzialità e una nervosità scultoree. Non è un caso che uno dei più grandi ammiratori di Kleist sarà Kafka, accomunato al suo maestro proprio dalla pulizia adamantina della prosa – e, al contempo, dalla sfumatura teatrale di molti episodi dei suoi romanzi: l’arresto di Josef K. è una scena che si svolge su un palco invisibile.
Heinrich coltivò per tutta la vita un legame di particolare affetto per la sorella Ulrike, l’unica che continuò a sostenerlo anche quando il resto della famiglia gli aveva voltato le spalle, disapprovando la sua ostinazione nel perseguire la professione di scrittore. Dedicarsi a una vita simile non è mai stato remunerativo: non lo è oggi e lo era ancor meno ai primi dell’Ottocento. Heinrich, pur ottenendo qua e là qualche guadagno non disdicevolmente basso per le sue pubblicazioni sia artistiche che giornalistiche, lavorò per anni in condizioni economiche difficili, talvolta umilianti. Per un esponente di una illustre famiglia prussiana (un suo zio era generale dell’esercito e aveva affrontato Napoleone in battaglia) scegliere una vita del genere era un’ostinazione che rasentava la follia. Ulrike fu l’unica a mantenere sempre un legame di sincero affetto per il fratello, e ne fu ricambiata con tutto il cuore da Heinrich. Fu lei l’unica a cui pensò prima di togliersi la vita: la lettera che le scrisse, e che ci è pervenuta, è colma di una delicatezza che solo il più puro amore fraterno poteva ispirare: “In realtà, tu hai fatto per me non dico quanto stava nelle forze di una sorella, ma nelle forze di una creatura umana, al fine di salvarmi: la verità è che per me non c’era aiuto possibile sulla terra. E ora addio; possa il cielo donarti una morte solo a metà così gioiosa e indicibilmente serena come la mia: questo è l’augurio più cordiale e più profondo che io possa concepire per te.”
Tra le opere di Kleist vi sono capolavori, sia teatrali che narrativi, i quali alla loro prima apparizione mostrarono una tale carica di novità da risultare di un’estraneità angosciosa a molti dei suoi contemporanei. La sua Pentesilea presenta un’antichità omerica fatta di passioni di violenza abissale, feroce, quasi barbarica, una tragedia decisamente lontana dai canoni levigati e apollinei del dramma classico di scuola weimariana o da quelli di stile francese. Sembra quasi naturale che essa ebbe scarso successo alla prima rappresentazione e che, dopo essere caduta nel dimenticatoio, venne riscoperta e riletta con entusiasmo tra gli ultimi anni del secolo XIX e i primi del Novecento. Un elemento che Kleist recuperò dalla tragedia antica e che reinterpretò a suo modo, facendone la colonna portante di tutte le sue opere, è quella che potremmo chiamare la visione tragica del mondo, cioè una rappresentazione della vita umana come inevitabilmente destinata alla sofferenza e alla sconfitta contro fattori completamente al di fuori del suo controllo, e in cui persino le azioni compiute per cercare di far fronte al dolore per ritrovare la propria dignità sembrano accelerare la rovina. La tragedia, in generale, porta in scena un mondo in cui sembra non esserci scampo al male e alla sua ripetizione, ed è questo che la rende particolarmente inquietante: vi sono, in via del tutto eccezionale, azioni o circostanze che possono spezzare la circolarità ripetitiva e spietata di questo destino, come ad esempio l’intervento dell’Areopago alla fine dell’Orestea di Eschilo, che pone fine una volta per tutte alla scia di sangue e delitto che era cominciata con Tantalo e che era giunta attraverso le generazioni fino al matricida Oreste. Nei drammi e nei racconti kleistiani questa atmosfera tragica appare come un gas velenoso che si insinua non visto nelle pieghe del racconto e che un po’ alla volta infetta il carattere e le azioni di tutti i soggetti della narrazione, arrivando persino a sconvolgere la realtà morale e sociale intorno a loro. La declinazione modernissima che assume tale “infezione” del male anticipa – e talvolta supera – l’avvento della psicoanalisi contemporanea, e affiora come omissione, censura, non detto, lapsus, dettaglio fuori posto, come corto circuito che scompagina l’intera dinamica dei rapporti tra i personaggi in una maniera che risulta difficilmente individuabile, eppure chiaramente percepibile. Per limitarci solo ad un esempio: La marchesa di O. è un racconto la cui struttura ruota intorno ad un punto volutamente oscuro della vicenda narrata – il titolo stesso presenta il nome della protagonista in forma censurata, se non per l’iniziale – e nonostante questa ombra, questa rottura nella continuità dell’azione venga successivamente rimossa, anche se non in una maniera esattamente esplicita, essa continua a destabilizzare la coerenza e la compattezza della soggettività della protagonista. La marchesa di O…, donna da poco vedova del marito, figlia del governatore di una fortezza nel nord Italia (non viene mai precisato dove, si menziona solo la città di M.), durante l’assedio di questa stessa fortezza nel corso di una guerra tra varie potenze europee, viene quasi violentata da un gruppo di soldati russi, che vengono fermati appena in tempo dal loro comandante, il conte F. Costui, dopo aver portato la marchesa in un luogo sicuro dove però perde i sensi, concederà la resa al Colonnello suo padre e un salvacondotto per la sua intera famiglia. Qualche tempo dopo, quando il conte F. sarà già partito, la marchesa comincia a mostrare i segni di una gravidanza incipiente: inizialmente liquida le nausee e il malessere come dolori del tutto innocui e passeggeri, ma dopo poco la faccenda diventa evidente. Questo evento distruggerà la vita della marchesa, la quale giura di non essersi più concessa a nessun uomo dopo la morte di suo marito. Ripudiata dai genitori, e purtuttavia ferma nella convinzione della propria innocenza e determinata a scoprire la causa del suo stato, la marchesa decide, a costo di umiliarsi, di pubblicare un appello su un giornale per scoprire l’identità del possibile padre. Sarà proprio il conte F. a presentarsi, proponendo alla marchesa di sposarlo, ma verrà rifiutato da quest’ultima con un’ostinazione difficilmente comprensibile.
Kleist dissemina vari indizi per suggerire che il padre era proprio il conte F., il quale probabilmente ha violentato la marchesa in un momento imprecisato – e volutamente omesso – tra il suo salvataggio e il rinvenimento della marchesa nella fortezza dopo la sua perdita di coscienza; il conte ha approfittato dell’incoscienza della marchesa per imporsi su di lei? O si è trattato di una perdita di sensi dovuta al trauma di vedere il proprio salvatore compiere proprio ciò da cui l’aveva salvata? In ogni caso, anche quando sembra ormai chiaro che il conte si è assunto la responsabilità della gravidanza che la marchesa sta portando avanti, vi sono d’altra parte vari dettagli che insinuano spiegazioni diverse, e che sembrano contrastare con l’interpretazione più lineare dei fatti. La madre della marchesa, per mettere alla prova la figlia, induce un domestico di casa ad una falsa confessione, facendogli ammettere di aver abusato della donna in un momento di sonno dovuto alla stanchezza e al caldo. Non è chiaro se questa confessione sia uno stratagemma unicamente frutto delle pressioni della madre oppure se il domestico in questione sia giunto perfino a convincersi di aver effettivamente compiuto il riprovevole atto, secondo una dinamica di autosuggestione che ritroviamo anche in Delitto e castigo, dove un operaio arriva a confessare di aver commesso l’assassinio il cui vero autore è Raskolnikov. La marchesa, dal canto suo, sembra accettare questa versione dei fatti e, per quanto visibilmente confusa, afferma persino di essere disposta a sposare il domestico per mettere in regola la sua posizione ed evitare un possibile scandalo; davanti a questa prova di onestà, la madre cede e perdona la figlia. Poco dopo, la scena della riconciliazione della marchesa con i suoi genitori, che avviene su sprone della madre, colei che per prima ha iniziato a credere all’innocenza della figlia e a cercare una spiegazione diversa per il suo stato, è descritta con un’espressione alquanto insolita: l’abbraccio tra la marchesa e il padre, entrambi in lacrime, viene paragonata alla riappacificazione tra due amanti dopo un litigio, cosa che parrebbe alludere al momentaneo, inconsapevole emergere di un rapporto d’affetto più che filiale tra genitore e figlia, rapporto in cui la madre sembra porsi unicamente come spettatrice e mediatrice. Di nuovo, anche quando il racconto sembra appianare le contraddizioni e affermare chiaramente il senso delle azioni narrate, alcuni dettagli ne rompono la coerenza interna, ostacolano l’evolversi della narrazione secondo le consuete aspettative. Anche se si tratta appunto solo di dettagli, di allusioni appena accennate o di coincidenze che forse non intendono indicare nulla di preciso, proprio perciò il normale fluire delle emozioni e delle reazioni, sia nei personaggi che nel lettore, ne sono disturbate e, per così dire, vengono deragliate dai loro normali binari.
Il grande critico letterario Max Kommerell, in un suo fondamentale saggio su Kleist, ha osservato come con lui abbia inizio la letteratura come gesto. Un gesto, propriamente, è qualcosa che qualcuno compie senza che però sia frutto di una decisione ponderata e cosciente, senza che si tratti di un’azione prodotta da un processo di deliberazione e con uno scopo intenzionato ben preciso; è un atto imputabile a qualcuno, ma non personale e consapevole, è un punto di indecisione tra il mero accadimento e l’azione vera e propria. Dal breve scorcio che abbiamo gettato sulla Marchesa di O. credo possa risultare comprensibile il senso di questa identificazione della letteratura come gesto, e ciò almeno su due livelli: in primo luogo, il motore dell’azione drammatica e della narrazione sono appunto gesti, atti imputabili ma incoscienti, non dominati dai soggetti che li compiono, e che purtuttavia trascinano con sé anche la coscienza e la logica dei personaggi in gioco. Ma in secondo luogo, e in un senso ancora più decisivo, Kleist vede il suo stesso atto di creazione letteraria come un gesto, sembra suggerire, sempre in maniera implicita e per mezzo di sottili non-detti, che il contenuto stesso delle sue opere sia sgorgato da lui come impulso e come atto inconsapevole – o almeno, come atto che si rappresenta a sé stesso come consapevole, ma sempre di fatto compromesso con l’incoscienza, i cui moventi e le cui direzioni non sono mai decise a priori, e in cui l’elaborazione formale può solo fornire l’illusione dell’intenzionalità ad un oscuro gioco di passioni e di presentimenti. Solo per una predicazione equivoca si può dire che Michael Kolhaas o La marchesa di O. sono opere il cui autore sia Heinrich von Kleist: sarebbe meglio dire che queste opere hanno parlato per mezzo di Heinrich von Kleist. Viene in mente, di nuovo, Kafka, quando scrive in una lettera che nei suoi romanzi hanno parlato voci che lui sentiva dentro di sé senza identificarsi con esse, quella del guardiano della Legge e quella di colui che vuole attraversare la soglia della Legge.
Vi è chi si toglie la vita con ferocia, come si strappasse di dosso la casacca di un’odiata schiavitù. Vi è chi si lascia morire per rassegnazione o per disperazione. Ma vi è anche chi decide di abbandonare la vita per sforzarsi di rimanere fedele a se stesso, e per non avere rimpianti. Coloro che cercarono la morte per non dover diventare oggetto di scherno, di falsa compassione o di annoiata indifferenza; forse a quest’ultimo gruppo appartenevano Heinrich ed Henriette. Anche su di lei, sulla sua dolorosissima ma lucida decisione ci sarebbe molto da dire. Che abbia scelto di condividere i suoi ultimi momenti con Heinrich è significativo. Quest’ultimo percepì sempre un legame particolarmente forte con le donne, tutte le persone più importanti della sua vita, eccezion fatta per un grande amico, Adam Heinrich Mueller, furono donne: Henriette, la dolce e affezionata Ulrike, la fidanzata di gioventù, Wilhelmine von Zenge, una donna di grande curiosità e intelligenza che alla fine decise di non seguire Heinrich sulla sua strada di scrittore. Il loro rapporto epistolare ci ha lasciato alcune delle lettere più belle di Kleist. In una di queste, scritta nell’estate del 1800, egli si chiese se fosse meglio aver provato solo una volta e brevemente la felicità, o non essere mai stati felici. La sua risposta a tale quesito, che in termini diversi ritroviamo in molti altri scrittori della sua epoca, fu che è senz’altro meglio essere stati, almeno una volta, felici – risposta diametralmente contraria al celebre adagio di Lord Byron: “il ricordo del dolore è ancora doloroso, ma il ricordo della felicità non è più felice”. Viene da chiedersi se undici anni dopo Heinrich avrebbe ripetuto queste parole, ma l’atto estremo con cui se ne andò non deve necessariamente essere interpretato come una forma di delusione verso i propri ideali, come un buttare alle ortiche qualcosa di inconcludente. Mi piace supporre che fino alla fine egli non si sia mai pentito della felicità provata: l’insolita serenità che domina la sua ultima lettera alla sorella ne è un indizio. Lasciamo allora, a mo’ di congedo, che siano le parole di Heinrich a Wilhelmine, scritte sotto il sole della speranza, a concludere questo piccolo frammento:
“Colui che un tempo sognava nel grembo della felicità l’aureo sogno della vita, quando il destino lo sveglia con voce roca, tende allora le braccia sconsolato verso le immagini divine, che ora s’involano per sempre, e il suo dolore è tanto più grande, quanto più grande era la felicità di cui godette. Ma dalla cornucopia delle benedizioni che si apre dall’Alto ha pur sempre ricevuto un fiorellino che può ancora deliziarlo nella memoria, quand’anche sia sfiorito da lungo tempo. Le richieste che doveva fare a questa vita non sono rimaste del tutto insoddisfatte, non tutte le sue pretese sono state respinte dalla grande eredità che il cielo ha lasciato ai figli della terra, non si lamenterà di quel Padre degli uomini che non lo ha escluso dal suo amore, non invidierà con amaro rancore i suoi fratelli e sorelle… non maledirà il godimento della sua felicità perché non durò in eterno, così come non si maledice la primavera perché è corta, o non si querela contro il giorno perché poi la notte prende il suo posto. Coraggioso e più sicuro che se non avesse mai percorso i sentieri luminosi, ora percorrerà anche quelli oscuri della sua vita e nella sua memoria visiterà talvolta le rovine ricoperte di muschio della sua antica felicità con gioia malinconica per cogliere i piccoli fiori autunnali della saggezza.”