
La dichiarazione di guerra che nelle ultime ore sembra delinearsi tra il nuovo boss di Twitter, Elon Musk, e Apple è l’ultimo episodio in una lunga serie di demenziali disavventure che hanno caratterizzato gli ultimi mesi a partire dal cambio di guida del colosso dei social network. Nonostante le solenni dichiarazioni di Musk secondo le quali l’uccellino adesso sarebbe libero, la commedia adesso sarebbe permessa e tutti potranno esprimersi senza timore su Twitter, ciò che il miliardario sudafricano si è comprato, per il momento, è solo un cumulo di denunce e di problemi, aggravati dalla sua gestione maldestra e in certi casi letteralmente circense.
Ora, le decisioni riguardanti la nuova politica aziendale di Twitter hanno suscitato aspre polemiche non solo per il fatto che Musk stesso è un personaggio molto discusso, osannato e criticato da parecchio tempo, ma perché è chiaro a chiunque che Twitter è ormai uno dei campi più importanti di circolazione di informazioni e opinioni – laddove le due cose sono quasi sempre mescolate e non perfettamente distinguibili. I social media, in generale, sono di fatto la nostra dimensione pubblica dell’espressione individuale e collettiva, e non è quindi un caso che proprio essi siano divenuti il campo della più serrata tra le battaglie.
Dire che chi controlla i social controlla le opinioni delle persone sarebbe un’esagerazione e una sopravvalutazione del loro effettivo potere, ma si tratta in ogni caso di un punto decisivo per sostenere – e dirigere – il discorso pubblico. Nella maggior parte dei casi i social, per parafrasare il motto di uno scrittore tedesco, sono come uno specchio: se vi si affaccia una scimmia, non ne verrà fuori l’immagine di un angelo. Questo specchio, però, può omettere e manipolare non solo l’informazione ma anche l’insieme di valutazioni che se ne offrono al punto da poter convincere molte persone che tutto sommato una scimmia è davvero più bella di un angelo.
Twitter, già da tempo, era visto come un il social dove il principale obbiettivo degli utenti era litigare, su tutto, per tutto e contro tutti, e se questo spettacolo potrebbe anche essere dipinto come una parte necessaria della libertà d’espressione, l’idea che oramai si fosse giunti a litigare per il solo gusto della polemica aveva confutato questa idea nella pratica, almeno in parte. Tuttavia, per incredibile che possa suonare a certe orecchie, su Twitter si sono condotte anche conversazioni costruttive ed è anzi stato un canale fondamentale per dare voce ad una serie di rivendicazioni e di tesi che negli spazi tradizionali di espressione pubblica (anche semplicemente la strada o la piazza) sarebbero state represse con la violenza. Questo aspetto è stato reso ancora più decisivo dal fatto che Twitter è, tra tutti i social, quello che possiede la maggiore trasversalità demografica e geografica. Tanto per fare un esempio, Facebook, che è un social ancora molto utilizzato in Italia – anche se è ormai considerato il social “dei vecchi” -, è quasi inesistente in Russia, dove invece imperano il suo corrispettivo nazionale, Yandex, e soprattutto Instagram. Instagram, a sua volta, raccoglie il maggior numero di interazioni da una fascia demografica diversa da quella di, poniamo, TikTok, laddove quest’ultimo si è consolidato come il social delle generazioni più giovani, gli under 18. Twitter è l’unico che è riuscito a diffondersi con una certa uniformità in tutti i paesi a tutte le fasce d’età. Insomma, piace agli zoomer, ai boomer e ai millenials: “How do you do, fellow kids?”.
Per capire meglio cosa sta succedendo nell’ultimo mese e mezzo a Twitter bisogna dare uno sguardo d’insieme alla situazione e fare un passo indietro. A mio avviso la causa prima dell’interessamento di Musk a Twitter e il suo martellante, noioso insistere sulla sua difesa del free speech, è un evento ben preciso, dal quale sono discese a cascata varie conseguenze. L’evento è l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, che causò, come tutti sanno, la sospensione dell’account Twitter di Donald Trump. Provo qui a ricapitolare una piccola storia dietro le quinte della lotta per i social media, tanto più interessante in quanto quasi del tutto ignorata in Italia.
Donald Trump aveva compreso già nel corso della sua campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti che sui social si decideva ormai la valutazione e l’inclinazione del pubblico per una personalità o l’altra, e la sua elezione fu in misura non trascurabile dovuta ad alcuni colpi fortunati su Twitter, dove persino le sue gaffe potevano essere trasformate in motivi di simpatia. Ciò che l’uccellino dà, però, l’uccellino prende, senza troppi riguardi. Fu di nuovo sui social che avvenne il tracollo della sua amministrazione, dove Black Lives Matter e la repressione delle proteste che seguirono, specialmente a Washington, furono rese note in maniera “diretta” e personale da coloro che vi presero parte e picconarono alla base la confidenza del suo elettorato, rendendo sempre più isterica d’altra parte la base dei suoi sostenitori duri e puri. Ciò che accadde durante le nuove elezioni presidenziali, nelle quali Biden vinse una vittoria di millimetrica misura su Trump, è abbastanza noto. La decisione dei dirigenti di Twitter di “bannare” il presidente uscente, probabilmente temendo che permettere discorsi potenzialmente insurrezionisti o golpisti li avrebbe messi in una marea senza fine di guai (tanto più che la sede legale di Twitter è negli Stati Uniti, e quindi soggetta a giurisdizione americana), è stata a sua volta fortemente controversa, tanto più perché sembrava il culmine in una serie di ban che erano andati a colpire membri dell’establishment repubblicano, tra cui Alex Jones e Steve Bannon; Twitter venne quindi accusata di essere, de facto, politicamente schierata, e di censurare opinioni non allineate alla sua politica.
Nel frattempo, tuttavia, Donald Trump non si era dato per vinto e, avendo imparato che i social sono l’arcanum del potere contemporaneo, non ha perso tempo e ha subito fondato assieme ad un membro del suo staff, il deputato repubblicano David Nunes, il Trump Media & Technology Group (TMTG). L’obbiettivo, abbastanza chiaro, era quello di combattere il nemico con le sue stesse armi: se Trump non avrebbe più potuto rimanere su Twitter si sarebbe fatto un social tutto suo, con black-jack e squillo di lusso.
Nell’ottobre 2021 TMTG negozia una fusione con la Digital World Acquisition Corp (DWAC), una società d’investimenti il cui scopo è quello di raccogliere finanziamenti per acquisizioni specifiche. La DWAC era già sotto osservazione da parte della Securities and Exchange Commission (SEC), l’ente federale indipendente degli USA che corrisponde più o meno alla nostra CONSOB, con la differenza che funziona. La fusione stessa, su richiesta esplicita di una senatrice democratica, Elizabeth Warren, viene messa sotto inchiesta dalla SEC per possibili irregolarità di mercato nella fusione, vengono emessi mandati di perquisizione e di sequestro per archivi e documenti della DWAC e, a quanto posso vedere, l’inchiesta è tutt’ora in corso. La DWAC ha comunque ufficialmente annunciato la rimozione di Trump e di suo figlio Donald Jr. dal directory board.
Ad ogni modo, nel febbraio 2022 il gruppo TMTG lancia il suo social network, Truth Social: ci mancava che adesso pure Trump si mettesse in testa di fare la sua Pravda… Il social attira inizialmente qualche attenzione importante in America, ma presto si trova a dover affrontare problemi regolari di ordine finanziario e regolativo. Inutile dire che Truth è diventato da subito il rifugio preferito della militanza di estrema destra assieme all’altro grande social alt-right, Ramble. Truth, però, a dispetto delle ambizioni di Trump, rimane un social di scarsa diffusione: 1.7 milioni di utenti contro i quasi 300 milioni di Twitter.
Nel frattempo, Elon Musk, quasi scherzando, lancia la proposta di acquisire Twitter. All’inizio l’affare non nasce da una critica consistente di Musk alla gestione del social media, sembra un’offerta quasi buttata là. Non c’è dubbio, però, che Musk avesse subodorato che la dirigenza di Twitter si trovasse in una situazione spinosa dopo le controversie sulla sospensione di Trump. Una volta entrato in carica, in uno dei suoi tweet Musk affermerà che la compagnia era in perdita di 4 milioni di dollari al giorno: non ho avuto modo di trovare dati che confermino questa affermazione, ma di sicuro Twitter stava subendo delle agitazioni interne, testimoniate dal fatto che due presidenti e due CEO si erano susseguiti in meno di 24 mesi, dopo direzioni abbastanza stabili e pluriennali.
Non appena Musk annuncia ufficialmente di voler acquisire Twitter nell’aprile del 2022, le quotazioni in borsa di Truth Social cadono del 44%, indizio significativo: Truth, specialmente negli USA, doveva essere ancora ritenuta un possibile pretendente al trono, o un’alternativa a Twitter. Adesso, coloro che prima guardavano, sia pur senza troppe speranze, a Truth e Ramble, tornano a interessarsi a Twitter; a prescindere da quali siano le personali opinioni politiche di Musk, la sua acquisizione è stata un segnale positivo per la più larga fetta conservatrice dell’utenza social, soprattutto di quella che aveva ancora troppo schifo dei neo-nazisti e dei complottisti che avevano inondato i due social pro-Trump. Ad un certo punto lo stesso David Nunes, membro del conisglio d’amministrazione di Truth Social, aveva messo in circolazione la voce che Musk avesse deciso di acquisire Twitter su pressione di Trump, cosa pubblicamente smentita dallo stesso Elon Musk, il quale anzi non ha risparmiato gli strali e le prese in giro a Truth, a partire dal nome: considerando però quanto Musk stesso si sia riempito la bocca e i tweet della “libertà di parola”, quasi a volersene arrogare il monopolio, non sembra che lui stesso, in fin dei conti, abbia trovato una tattica migliore dell’identificarsi con un valore astratto e universalmente osannato, così che adesso la Verità e la Libertà si prendono a schiaffi e fanno a gara per accattivarsi il favore dei bugiardi e degli schiavi.
Dopo aver concluso l’acquisizione di Twitter in ottobre di quest’anno, un affare da 44 miliardi di dollari – uno zuccherino, l’avrebbe chiamato Talleyrand – è interessante notare che Musk, dopo un poll bandito su Twitter in termini molto vaghi (tradotto liberamente: “Dovremmo concedere un’amnistia a tutti gli account sospesi permanentemente, eccezion fatta per quelli che implicano violazioni comprovate della legge ?”) ha offerto a Trump di rimettere in attività il suo account, cosa che l’ex-presidente americano ha rifiutato affermando di voler rimanere su Truth, che continua a rimanere il social da lui promosso: hic manebit pessime.
Torniamo allora a Twitter; la missione di cui Elon Musk si è investito, nell’acquisto dell’uccellino blu, è stata quella di paladino della libertà di parola – si è spinto addirittura ad affermare di comprare Twitter per aiutare l’umanità (!) – ma il decorso stesso delle trattative con la dirigenza del social network, così come i suoi due mesi di dirigenza, si sono rivelati un vero e proprio circo, che di tanto in tanto ha assunto anche toni drammatici. Musk, già prima di buttarsi nell’avventura di comprarsi Twitter, era stato tartassato dalla summenzionata SEC per irregolarità accusate dagli azionisti di Tesla. L’acquisizione di Twitter ha rinnovato l’attenzione della SEC, la quale non ha avviato inchieste contro Musk, ma in compenso ha esposto delle accuse contro i precedenti amministratori delegati di Twitter, incolpandoli di fornire una rappresentazione troppo positiva e non corrispondente a realtà della situazione reale e azionaria di Twitter. Musk, affermando che il social era infestato da bot, cioè profili artificiali, si era tirato indietro dalla proposta di vendita, al che il CEO di Twitter aveva fatto causa, rivolgendosi ad una corte del Delaware. Di nuovo, il contenzioso è ancora in corso: un articolo del Washington Post riporta gli ultimi sviluppi.
Mentre queste beghe giudiziarie sono ancora in corso, Musk torna a negoziare con Twitter e il 2 luglio finalizza un accordo di acquisizione per i due spicci di cui abbiamo detto. La sua prima mossa è stata di licenziare l’intero board dirigenziale e di concentrare in sé tutto il potere decisionale. Poi, sostenendo che l’azienda era in perdita, ha licenziato circa metà del personale. Ai rimanenti è arrivata una mail del nuovo capo nel quale venivano incoraggiati – o intimati? – ad inserirsi in una “cultura estremamente hardcore“, qualunque cosa ciò significhi, e ciò ha causato in aggiunta le dimissioni volontarie di un ulteriore cospicuo numero di dipendenti. Musk aveva fatto mostra di stringere le spalle e mormorare un commento di rammarico, salvo accorgersi, poco dopo, che tra i licenziati c’erano numerosi tecnici e programmatori essenziali al funzionamento dell’azienda; dopo pochi giorni si è visto costretto a contattarli per implorarli di tornare indietro.
A questo punto entra in scena la portata principale dello spettacolo, il tentativo di Musk di rendere i profili verificati di Twitter, la famosa spunta blu, un servizio a pagamento. Va detto, a onor del vero, che questa misura non nasce dalla mera avidità, ma ha una sua logica aziendale: Musk ha affermato chiaramente di voler svincolare, per quanto possibile, le entrate di Twitter dalla pubblicità per renderla un’azienda il più possibile basata su propri guadagni. A ciò va aggiunto che i criteri con cui venivano date le spunte blu non erano sempre univoci e lineari, e capitava spesso che personaggi famosi e istituzioni riconosciute non avessero la spunta blu, mentre personaggi di second’ordine e enti locali e comunali la ottenessero. Il nostro caro Elon ha quindi lanciato la proposta di far pagare venti dollari al mese per la spunta blu, al che Stephen King, rispondendo con un tweet, ha rispettosamente espresso la sua divergenza di opinioni e ha, con vivo disappunto, prospettato la sua rinuncia all’account nel caso tale iniqua misura venisse implementata (“F*ck that!”). Musk, rispondendo a sua volta all’illustre narratore, il quale deve essersi sentito un po’ emozionato a far parte, una volta tanto, di una storia dell’orrore invece di scriverla, ha accettato di abbassare a otto dollari, sostenendo che le bollette bisogna pur pagarle. Che magnanimità, signore e signori! Di questi tempi, gli affari si fanno così.
Il tentativo di far pagare otto dollari per essere dei cinguettatori certificati ha attirato svariate critiche; molti hanno sostenuto che in cambio di otto dollari anche le opinioni più infami potranno essere diffuse impunemente e che, visto che si parla di uccelli, Twitter lascerà gracchiare i corvi e punirà le colombe. Ma Musk, sicuro che questo sarebbe stato il primo passo per difendere la libertà di parola sul social, non si è fatto intimorire e ha fatto un tentativo di implementazione in USA, Canada, Australia e Nuova Zelanda. Avete otto dollari per prendervi un bicchierone di sbobba da Starbucks e non volete sganciarne altrettanti per poter avere la Libertà di Parola PremiumTM? L’esito è stato… beh, un disastro. In breve si è assistito ad un proliferare di account verificati che impersonavano personaggi politici, celebrità e aziende, che si sono scatenati a fare a pezzi la suddetta libertà di parola e a seminare il caos nel social network. Qui sotto solo un assaggio.



Tra gli altri, un profilo verificato che impersonava Donald Trump ha dichiarato il suo supporto e la sua ammirazione per Joe Biden, ha affermato di prendersi la totale responsabilità per gli eventi del 6 gennaio 2021 e ha proclamato Barack Obama il miglior presidente americano degli ultimi vent’anni. A tutto ciò Elon Musk ha risposto facendo subito dietro front sulla sbandierata e promessa libertà di parola e di commedia:

Un breve video di Adam Something, canale YouTube che raccomando a tutti, sintetizza in maniera eccellente questa sequela tragicomica di fallimenti.
Alla fine di questo breve riassunto si menziona, tra l’altro, il disastro che ha coinvolto Eli Lilly & Co., un’industria farmaceutica statunitense, principale produttrice di insulina del paese. Un profilo verificato che si spacciava falsamente per quello ufficiale della compagnia ha proclamato che l’insulina da ora in poi sarebbe stata gratis: il profilo ufficiale dell’azienda ha smentito poco dopo, salvo essere ridicolizzato, a breve distanza, da un nuovo tweet di un altro falso profilo verificato che si spacciava per loro, in cui si diceva, parafrasando: “Scusate, ci siamo sbagliati, adesso l’insulina costa 400$, beccatevi questa.” La compagnia, in preda al panico, ha contattato subito Twitter esigendo l’immediata eliminazione dei post e la sospensione degli account incriminati: Twitter, con l’organico ridotto della metà, è riuscita ad intervenire solo ore dopo. Ora il gigante farmaceutico ha annunciato che lascerà il social e che rescinderà tutti i contratti pubblicitari con la piattaforma, cosa che costerà a Twitter milioni di dollari. La cifra potrebbe forse sembrare modesta a qualcuno che ha pagato 44 miliardi per comprarsi una gabbia di matti, ma sulla scorta dell’imperversare di questa confusione, molte altre compagnie di primo piano, tra cui General Motors, hanno rescisso i rispettivi accordi pubblicitari abbandonando la piattaforma e facendo aumentare vertiginosamente le perdite, al punto che Stephen King (ancora lui) ha commentato ironicamente che fra poco le uniche pubblicità che rimarranno su Twitter saranno quelle di My Pillow, qualcosa tipo la Eminflex, per intenderci. Ciò nondimeno, Musk ha chiarito in un post che il sistema della spunta blu a pagamento, momentaneamente sospeso, tornerà ad essere operativo dopo che verranno effettuate delle importanti modifiche.
In considerazione di tutte queste disavventure, ora Apple ha minacciato di voler togliere Twitter dall’app-store e Musk, in risposta, ha dichiarato di voler entrare in guerra. Bisogna sempre ricordare che, in situazioni del genere, le grandi compagnie e le multinazionali cercano di evitare a tutti i costi di essere associate a contenuti e spazi comunicativi discutibili o ritenuti a vario titolo dall’opinione pubblica come vergognosi o criminali, e questo semplicemente perché una cosa del genere distruggerebbe le vendite e le screditerebbe presso la clientela. Il fatto che grandi aziende esprimano preoccupazione per l’effettivo rispetto della libertà di parola su Twitter e per il proliferare di contenuti dannosi – qualsiasi essi siano – è una mera questione di marketing, e non di morale. Il conflitto tra Twitter e Apple è una sorta di conflitto feudale tra due grandi potentati della tecnologia che lottano per espandere il loro spazio e per promuovere i loro affari, ed Apple, in questa circostanza, non fa certo la parte del “buono” ma semmai del contrappeso: dopo lo scramble for Africa c’è lo scramble for public opinion, ed ognuno vuole la sua fetta. In questo conflitto Twitter parte già indebolita e menomata e, indipendentemente dall’evolversi della faccenda – non è improbabile che ad un certo punto Musk faccia un passo indietro e, rimanendo proprietario di Twitter, re-istituisca un consiglio d’amministrazione simile a quello precedente – l’aspetto comico della situazione lascerà il campo a problemi molto più seri. In ogni caso l’uso più o meno “politico” di Twitter rimane a tutt’ora un problema irrisolto, per certi versi inquietante: che Elon Musk, senza farsi troppi problemi sulla sua posizione privilegiata di amministratore, si sia servito del suo account per incoraggiare gli americani a votare repubblicano – cosa che di per sé non ci stupisce – lo testimonia.
L’incompetenza di Elon Musk come dirigente, con buona pace di tutti coloro che lo incensavano come l’imprenditore del secolo, ha forse agito da sicura e da meccanismo di difesa, destando le reazioni sia di privati che di organi ufficiali contro certe sue decisioni discutibili, ma la battaglia per la definizione della comunicazione globale è solo agli inizi, e in essa non è in gioco solo la libertà di parola. Per il momento, l’annuncio che la commedia ora è libera su Twitter ha assunto un senso più concreto di quanto il suo autore non si aspettasse.