
Chi ha detto che la letteratura debba sempre essere qualcosa di profondo? Pietro Citati, in una vecchia intervista, dichiarò: “Adoro la superficialità!”, e quando Giovanni Minoli, l’intervistatore, gli domandò quale fosse la qualità propria della superficialità, il grande critico rispose: “La leggerezza, l’eleganza, la mobilità”. Facilissimo, sulla base di idee preconcette, misconoscere queste qualità in uno scrittore, tanto più che essere superficiali in modo intelligente non è affatto più facile che essere profondi in modo intelligente. E del resto un’eccessiva idolatria della profondità non è forse il vizio a cui siamo più inclini noi Europei, noi gente resa iper-cerebrale da una lunga tradizione erudita? Noi che troppo spesso sentiamo col nostro intelletto, e pensiamo col nostro stomaco (per non menzionare altri organi)? Ci immaginiamo così spesso che i grandi libri, l'”alta letteratura”, ci debbano svelare chissà quali verità nascoste nelle viscere del mondo, che poi, quando uno scrittore ci racconta una storia semplicemente per farci divertire, ne siamo quasi delusi se non riusciamo a cavarne fuori una lezione, di qualunque tipo. Non che la letteratura superficiale dozzinale non esista, certo: ma in reazione a questa sua inquilina del piano di sopra, così snob e superba, dall’eloquio ingarbugliato, piena zeppa di elucubrazioni e monologhi senza fine, che erige altari alla schizofrenia e alla malvagità, che civetta col suicidio e i deliri di onnipotenza, essa è diventata così allergica all’ingegno e al buon gusto da trasformarsi a sua volta in una straccivendola volgare, rumorosa, completamente priva delle più comuni attrattive. Ma se gli antichi ci hanno insegnato qualcosa è che tutti gli déi del pantheon meritano il loro culto, e anche la superficialità ha i suoi diritti.
Heinrich Heine è lo scrittore che forse più di ogni altro ha saputo vendicare i diritti della superficialità, che ha saputo incarnarne alla perfezione le qualità della leggerezza, dell’eleganza e della mobilità di cui parlava Citati. La deliziosa ironia che attraversa tutti i suoi scritti, il senso così dolce e inconfondibile della sua umanità, della sua magnanimità e, allo stesso tempo, la sua malignità pungente, a volte perfino aspra, ci fanno respirare un’aria completamente diversa da quella che sentiamo a fiuto in altri autori, specialmente tra quelli di lingua tedesca: si respira un’aria limpida, fresca, mai inquinata dal tanfo della cattiveria umana, dai profumi melensi del sentimentalismo da cicisbei, o dall’odore invadente, tabaccato, dei club nazional-popolari. Leggendo Heine si ha l’impressione di camminare all’aperto in una splendida e calda giornata d’estate; egli è veramente il più riuscito degli spiriti apollinei in letteratura, e il genio sorridente delle lettere tedesche.
Il tono giocoso e lieto che domina il timbro di Heine lo caratterizza in maniera così profonda che Ferruccio Masini, in una sua bella introduzione ai Reisebilder, quell’insieme eterogeneo di brevi scritti in prosa che costituiscono le personalissime “impressioni di viaggio” del nostro in giro per la Germania, il Mare del Nord e l’Italia, l’ha definito l’Aristofane tedesco nell’età delle rivoluzioni, ed è un’espressione che coglie in pieno un’elemento dello stile di Heine, e del suo contesto storico. In Aristofane come in Heine c’è un gusto per la commedia pura e semplice, per l’aspetto ridicolo dell’esistenza umana, e un ricorrere in entrambi dei temi immortali della commedia, cioè il cibo, il sesso e i conflitti generazionali. Ma le espressioni comiche o derisorie fanno sempre da premessa, o da mezzo di offesa nelle mani di una tendenza radicalmente critica nei confronti della cultura, della religione, dei costumi dell’alta società e, soprattutto, della politica. “Ma come? Ci hai appena detto che Heine è superficiale, ironico, elegante, e subito ci dici che è uno scrittore di tendenze politiche?” Lo so, oggi politica e letteratura, mescolate assieme, raramente producono bei risultati, e quando i politici stessi scrivono libri questi divengono fonte d’intrattenimento solo per accidente e a discapito delle intenzioni degli autori. Ma che ci crediate o no, c’era un tempo in cui la politica non era un argomento sconveniente per uno scrittore, e nemmeno per uno scrittore la cui vocazione principale era di poeta lirico, come nel caso di Heine, il quale anche in questo campo, o per dir meglio sopratutto in questo campo, seppe dare prova magistrale delle sue abilità satiriche e letterarie. Heine fu sempre un uomo di simpatie democratiche e repubblicane, non tanto per l’adesione a qualche particolare teoria di riforma della società e del mondo, ma per la sua innata simpatia verso il popolo, verso la gente semplice e umile, e la sua persistente avversione verso i potenti e i superbi. Una delle sue poesie più belle in assoluto è appunto un componimento di argomento politico, anzi legato alla più stringente attualità: Il canto dei tessitori di Slesia (Die schlesischen Weber), scritto nel 1844 sulla scorta dell’insurrezione degli operai del settore tessile in Slesia, la prima ribellione proletaria in Germania. Inutile dire che Heine si è schierato senza esitazione dalla loro parte.
Ma c’è da dire che, per come lo vedo io, il paragone con Aristofane non rende del tutto ciò che Heine fu come scrittore. La mobilità, che gli apparteneva così intimamente, ha fatto sì che lui non si inserisse mai appieno in un genere e in una tonalità poetico-narrativa, quanto piuttosto che si mettesse a giocare con vari toni, con vari generi e con idee molto diverse tra loro. Se quindi volessimo completare ed estendere l’analogia dovremmo dire che Heine non fu solo l’Aristofane tedesco, ma a seconda dei casi fu anche Anacreonte, con la sua sensualità languida e sognante, Alceo, con la sua irruenza politica e la sua tempestosa emotività, e Tibullo, con la sua voce sommessa, malinconica, meditativa e attraversata dal tremito di un amore infelice. Si tratta di uno dei lati più belli di Heine, una delle cose che lo rendono una lettura così vivida e divertente, una lettura che, una volta entrati nel suo ritmo, non annoia mai e reca sempre piccoli doni inaspettati, anche quando lo si rilegge a distanza di tempo. Questa mobilità si può percepire anche dal punto di vista dei generi letterari e dei contenuti che incontriamo nella sua opera: Heine è magistrale nel saper scherzare con varie forme espressive e con vari concetti, senza mai farsi intrappolare da nessuno, senza mai dare l’idea che nessuno di essi possa mai davvero trattenerlo per più di qualche ora, ma dimostrando al contempo di sapersi muovere con perfetta agilità all’interno di ciascuno. La religione può essere un esempio lampante: Heine, nato in un’agiata famiglia ebraica, da adulto si convertì al protestantesimo per meri motivi di convenienza, pur essendo divenuto in cuor suo un incredulo e un razionalista. Avendo viaggiato per molto tempo in paesi cattolici, ed avendo letto molto sulla storia della Chiesa, giunse a conoscere molto bene anche questa confessione. Pur mantenendo un legame affettivo particolare con l’ebraismo, Heine vide le religioni più come espressioni estetiche della vita umana che come risposte ad esigenze salvifiche personali, e in ciascuna vide una sua certa bellezza, o un determinato motivo di fascino – nonostante le battute mordaci nei confronti della tetraggine protestante. Nelle sue opere Heine dimostra di aver intrattenuto degli affairs con tutte e quattro queste idee di bellezza, quella protestante, quella cattolica, quella ebraica e quella “illuminista” o libertina se così la vogliamo chiamare, ma ha anche dimostrato di essersi mantenuto libero nei confronti di tutte e quattro, di tollerarle tutte senza escluderne né preferirne nessuna. Insomma, ha dimostrato di sapersi animosamente arrestare alla superficie.
Una fisionomia spirituale del genere, come si può facilmente intuire, richiede nel lettore una certa capacità di adattamento e una sorta di sospensione delle pretese che normalmente caratterizzano la fruizione di opere letterarie “serie”. Ad un orecchio poco clemente, Heine potrebbe apparire come poco più che il figlio frivolo e brillante dei salotti berlinesi, un motteggiatore spiritoso che però esercita le sue doti in maniera abbastanza disordinata e persino infantile. Del resto, eccezion fatta per due grandi raccolte di poesie, che riuniscono comunque materiale composto nel corso di diversi anni e in diverse occasioni, l’opera di Heine non presenta progetti vasti e imponenti, ma è perlopiù un susseguirsi di opere brevi o di frammenti incompiuti; tra questi ultimi meritano una menzione particolare il bellissimo racconto incompiuto intitolato Il rabbi di Bacharach e Le memorie del signor Schnabelewopski, il diario umoristico di un personaggio dal nome intenzionalmente impronunciabile. Alle obiezioni sulla frivolezza e l’infantilismo del poeta non credo che si possa rispondere in modo convincente accettandone le premesse, cioè che queste cose siano in sé difetti; l’unica via di confutarle è rifiutarne serenamente la valutazione implicita. La frivolezza e l’infantilismo ci sono, e sono espressi con tale arte, da essere resi incantevoli, divengono dei pregi. Leggendolo sembra talvolta di vederlo, il giovane Harry Heine (la versione inglese del suo nome fu quella che gli venne data alla nascita), un uomo che in gioventù fu di bell’aspetto e di discreto successo con le donne, con i suoi capelli rosso fuoco, gli occhi mobili e inquieti, un sorriso sornione appena accennato, eterno efebo che, a seconda della compagnia, scherza, si entusiasma o si strugge. I suoi commenti più salaci sono sempre condivisi col lettore in un tono confidenziale, come ci stesse parlando sottovoce ad un ricevimento. C’è chi apprezza e si intrattiene con queste confidenze, o chi le trova inappropriate e fastidiose. Ma tutto ciò non è solo amore per la chiacchiera, un vacuo giochetto narrativo. Lo stile di Heine, proprio come quello di una conversazione, sta sempre sondando il lettore: gli regala il divertimento più squisito quando accetta la sua superficialità, ma lo può cogliere inavvertitamente in fallo quando pretende serietà. Heine, come tutti gli spiriti comici, sa che c’è una grande debolezza, una sorta di istinto dispotico, nel rifiutare le superficialità, le frivolezze e il cicaleccio mondano che costituiscono gran parte della nostra vita, che c’è qualcosa di superficiale in senso negativo nel non voler accettare il ridicolo dell’esperienza umana.
Tutti conoscono quella storiella in cui si racconta che, a suon di gridare “Al lupo!” per scherzo, non si avrà più aiuto quando il lupo arriverà sul serio. Tuttavia io credo che non si consideri praticamente mai l’ipotesi opposta: quando si vive combattendo coi lupi, quando ogni volta che si ode gridare “Al lupo!” bisogna imbracciare le armi per combatterlo davvero, quando l’odio e il terrore dei lupi si imprimono così a fondo nel nostro cuore e nei nostri nervi da farci cercare lupi da combattere anche quando non ci sono, accadrà che un bel giorno, quando qualche sconsiderato buontempone deciderà di urlare “Al lupo” per scherzo i suoi compari, pur di ammazzare qualcosa, ammazzeranno lui. A quel punto, si può ben dare per certo che queste persone saranno ormai divenute ben più selvagge e feroci di tutti i lupi del mondo. L’ironia, lo scherzo, il comico sono il nostro principale mezzo per prenderci gioco non solo dei lupi, ma anche di quelle nostre ossessioni che crescono intorno ad essi, ci aiutano a guardare anche la nostra cattiveria con occhi esterni, come qualcosa di sciocco e imbarazzante, ancor prima che come moralmente discutibile. Il riso è il più semplice gesto di trionfo sui nostri stessi difetti, ed è ciò che rende la vita tutto sommato accettabile, talvolta perfino lieta, sfumando i confini, togliendo i piedistalli da sotto gli idoli terrificanti che incombono sulla mente umana come incubi; quella che sembrava una belva infernale si rivela solo l’ombra di un barboncino. L’unico e il migliore consiglio che potete trarre da questa modesta riflessione è: leggete Heine! lasciatevi sedurre dalla sua superficialità, e imparate a ridere in faccia ai lupi!