
Ho sempre provato una particolare attrazione per il periodo storico che va dagli anni ottanta del Settecento agli anni immediatamente successivi il Congresso di Vienna, cioè per l’epoca che racchiude in se gli eventi della Rivoluzione Francese, delle guerre napoleoniche e della prima rivoluzione industriale. Questa mia predilezione ha in gran parte un carattere estetico e sentimentale e pertanto è difficile da articolare a parole, come molte predilezioni di questo tipo le cui ragioni ultime sono in fin dei conti oscure e legate più al carattere di chi guarda, che non al contenuto oggettivo di ciò che è visto. Ciò nonostante, ho provato nel corso del tempo a chiarire a me stesso che cosa costituisse l’elemento essenziale (o gli elementi) del fascino che questa epoca esercita su di me e anche se non pretendo di aver trovato la risposta definitiva, credo di aver individuato almeno alcuni lineamenti di una possibile risposta. Credo che gli aspetti fondamentali di questo fascino possano essere meglio intuiti ed esposti tramite il ricorso alla pittura, che è, forse, la forma d’arte che mi ha introdotto a questo periodo storico. La pittura è una forma espressiva che ha, o almeno in passato ha avuto, il pregio di catturare le immagini e le esperienze che per l’umanità avevano maggiore importanza. Le mie cognizioni, e la mia intenzione, sono soprattutto storiche, e quel poco che so riguardo all’aspetto più propriamente formale e stilistico delle opere che addurrò come esempi avrà pertanto lo scopo di far comprendere meglio la fisionomia di una situazione storica.
Tra il 1780 e il 1815 si assiste ad una notevole concentrazione di materiale pittorico e al sorgere simultaneo di vari maestri di prim’ordine in quest’arte. I fermenti che attraversavano la pittura, così come la letteratura e la filosofia, negli anni precedenti l’89 e lo scoppio della Rivoluzione, avevano già contribuito a rompere con le correnti artistiche che avevano dominato gran parte del secolo diciottesimo, scettico, libertino e pieno di sentimenti strabocchevoli e teatrali, e avevano già messo in campo alcuni elementi chiave di quelli che in seguito diverranno i linguaggi figurativi dell’era rivoluzionaria e napoleonica. La Rivoluzione diede sicuramente una spinta enorme allo sviluppo delle arti figurative, e portò gli artisti a tentativi radicalmente nuovi in pittura, molti dei quali venero poi abbandonati o addomesticati dal potere politico per diventare arte di regime, altro aspetto nel quale quest’epoca risulta di inquietante attualità, introducendo un’ingerenza della politica nell’arte senza precedenti. A mio avviso, nel considerare anni così ricchi di stimoli e di tentativi divergenti, anche lo studio di pittori che potremmo definire “minori” ha una sua utilità nel far comprendere meglio le immagini che dominano questa epoca: molti di questi produssero opere di maniera, dipinti di consumo per l’aristocrazia e la borghesia o arte di propaganda, ma non per questo vanno liquidati come pittori privi di una vera coscienza artistica. Del resto anche un numero non trascurabile di maestri indiscussi, come Canova o Jacques-Louis David, furono coinvolti in queste forme di manierismo e in queste celebrazioni artistiche del regime napoleonico. Anne-Louis Girodet, uno degli artisti che considererò, dipinse un quadro in cui i generali della Repubblica francese vengono accolti nel Valhalla (sic!) dal mitico poeta Ossian, che allora andava tanto di moda; per quanto si tratti di un mediocre pasticcio politico-mitologico, è un quadro assai significativo dal punto di vista storico. L’interesse principale di questa epoca, dunque, sta nel suo rappresentare una fase di transizione nella storia umana e un punto di rottura col passato.
Nella sterminata quantità di opere che punteggiano gli anni che precedono e succedono all’89, la difficoltà maggiore sta nel trovare una linea guida che permetta di discernere le direttive fondamentali dello sviluppo artistico di pari passo con il dispiegarsi degli eventi politici e col mutare della sensibilità generale. Gli anni ottanta del Settecento sono occupati dall’irrompere sulla scena culturale del classicismo da una parte e dei movimenti pre-romantici dall’altra, il principale dei quali fu notoriamente lo Sturm und Drang in Germania. Seguire in maniera rigida e manualistica queste denominazioni, tuttavia, non ci porterebbe a granché, in primo luogo per il fatto che la definizione stessa di questi movimenti è solo parzialmente determinata e soggetta ad oscillazioni, ed in secondo luogo perché, una volta che si esamini attentamente ciascun artista, e persino ciascuna opera, sarà difficile trovare un singolo caso in cui queste due correnti non siano, anche solo in piccola parte, mescolate e reciprocamente influenzantisi. Se il classicismo è il culto della misura, della compostezza e dell’auto-controllo, l’arte del distacco emotivo e della statica serenità, e il pre-romanticismo, da parte sua, valorizza l’estremo, l’eccesso, il sublime, lo sgorgare vulcanico delle passioni e l’autenticità irrequieta del genio, allora non si potrà trovare nessun pittore di questa epoca che possa essere catalogato senza esitazioni in un campo o nell’altro, anche a dispetto della maniera in cui questi artisti stessi si identificavano: nella tensione piena di foschi presagi che cala sugli anni immediatamente confinanti con la Rivoluzione, la maestosità apollinea del classicismo viene invasa da sotterranee scosse di passione e di nostalgia, e gli alpestri bardi del sentimento cercano rifugio in reminiscenze greco-romane. Le due dinamiche si intrecciano costantemente fino a confondersi in maniera inestricabile. Per avvicinarci alla pittura di questi anni, dunque, potrebbe essere più utile considerare il suo punto di distacco dal passato proprio là dove essa sembra continuarne il linguaggio figurativo.
Uno dei pittori che meglio caratterizza l’arte del tardo Settecento e uno degli ultimi baluardi del suo immaginario è Jacques Sablet (1749-1803). Sablet, pittore francese proveniente da una famiglia di origini svizzere, oggi non è molto noto, ma godette di qualche apprezzamento ai suoi tempi. Tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta fu attratto dalla sensazione del momento, la comparsa dello stile neoclassico di David, ma fallendo la competizione con quest’ultimo decise di tornare a generi pittorici più tipicamente settecenteschi, il paesaggio e il ritratto in esterni. Formatosi sotto maestri di pittura attivi alla corte reale, e quindi tipici esponenti dell stile francese pre-rivoluzionario, seguì il suo mentore, Joseph-Marie Vien, a Roma, dove si stabilì e dove raggiunse la maturità artistica dipingendo molte scene ambientate nella campagna romana. Sembra quantomai adatto che un pittore personalmente così poco legato alle passioni suscitate dalla Rivoluzione vi assistesse da lontano, e che ne subì le conseguenze solo nel 1793, quando i sentimenti anti-francesi divampati nello Stato Pontificio per la condanna a morte di Luigi XVI lo spinsero a trasferirsi a Firenze, dove presto si stabilì una piccola comunità di artisti francesi fuggiti in parte da Roma e in parte dalla Francia stessa. Il paesaggio, di cui Sablet divenne esperto, era uno dei generi più in voga nel diciottesimo secolo, al punto che si potrebbe affermare che i pittori più grandi di questo genere erano, quasi sempre, i più famosi e stimati di quell’epoca, da Vanvitelli a Canaletto. L’Italia era una delle aree geografiche preferite da questi pittori, vuoi per le attrattive della sua natura, vuoi per la presenza di quelle rovine romane che permettevano ai vari autori di inserire nei loro quadri elementi classicheggianti e pseudo-decadenti. L’enorme successo delle incisioni di Giambattista Piranesi coadiuvò in misura non piccola questo gusto per i paesaggi all’italiana costellati da colonne diroccate, arcate di acquedotti ricoperte di vegetazione e statue sfigurate dall’ingiuria del tempo. La passione che prese i collezionisti d’arte per questi panorami e per queste atmosfere raggiunse una scala così grande e un tale livello di kitsch che ad un certo punto i grandi aristocratici e regnanti d’Europa cominciarono a farsi costruire nei loro parchi e nei loro giardini veri e propri capricci antichi, che dovevano simulare appunto simili scene di rovina romana divorata dal verde, con tanto di finti resti di edifici antichi scolpiti e “usurati” apposta per sembrare autentici e piante palustri piantate e lasciate crescere incolte per dare l’idea di una vegetazione vergine e incontaminata. Nel gigantesco parco del palazzo di Schönbrunn, a Vienna, se ne può ancora osservare uno.

I dipinti di Sablet sono ancora dominati dalla spensieratezza e dal naturalismo senza pretese del tardo Settecento, indugiano volentieri ai paesaggi punteggiati da rovine, così come a ritratti di gruppo o di singoli immersi nella tranquilla e lussureggiante campagna romana. I colori che compaiono sulla sua tavolozza sono ancora le varie sfumature di verde della vegetazione che tanta parte occupa nei suoi quadri, ma anche le tinte squillanti dei vestiti ancora legati alla moda del secolo dei lumi, dove non ci si tira indietro davanti ad un panciotto rosso fuoco, a delle brache giallo canarino o a giacche celesti à la Werther. E vi è, ovviamente, anche l’azzurro del cielo, che nei suoi paesaggi, così come nella maggior parte dei paesaggi dell’epoca, è sempre l’azzurro di belle giornate primaverili o estive, magari coperto appena da qualche candida nuvola o, in certi casi, leggermente scurito dal brutto tempo. Diventa tanto più interessante, allora, vedere un dipinto in cui il cielo di Sablet assume tutt’altra tonalità, in cui esso diventa qualcosa di più oscuro e minaccioso, attraversato da sparute fenditure di luce, nel quadro intitolato Elegia romana, datato 1791. In generale, il cielo è un elemento molto particolare del linguaggio pittorico, e si potrebbe persino giungere a servirsene come termometro o come strumento di rilevamento di quelle inquietudini che un artista non riesce ad articolare “esplicitamente” attraverso il contenuto effettivo di un’opera, attraverso le figure che ne occupano il fuoco prospettico o attraverso l’azione che si tenta di descrivere nello spazio ideale della tela. Potremmo certo affermare che questo dipinto, che appare decisamente artefatto nella composizione, nonostante l’utilizzo di riferimenti realistici, come la piramide di Cestio a Roma – all’epoca immersa nel verde in maniera non troppo diversa da come viene qui raffigurata – sia un’esercizio non molto originale e che il cielo, così insolitamente tetro per lo stile di Sablet, sia stato scelto appositamente per fare da riflesso atmosferico alla scena, che rappresenta la tristezza di due uomini in lutto nel panorama di una malinconica riminiscenza della grandezza umana dell’antichità, un tema tutto sommato non così innovativo. Che l’ambiente naturale dovesse fare da specchio della situazione interiore di un individuo era già all’epoca uno stratagemma espressivo abbastanza banale, in letteratura come in pittura. Ciò che vale la pena di chiedersi è: perché un pittore come Sablet ha scelto di dipingere una scena simile? E perché ha raffigurato proprio quegli elementi e non altri? Il fatto che quest’opera devii dal suo linguaggio espressivo consueto è a maggior ragione significativo, e io ritengo che in questo cielo minaccioso e temporalesco egli abbia dato voce a foschi presentimenti che non trovava modo di esternare altrimenti; si potrebbe dire che in questo quadro accade qualcosa di simile a ciò che ha dominato l’arte di Francesco Guardi, il vedutista veneziano più “espressionista” e sentimentale, nel quale assistiamo su più larga scala al progressivo infoschirsi dei cieli di Venezia, che erano sempre così tersi, sereni e splendidi nelle vedute di Canaletto o di Bernardo Bellotto. Guardi e Sablet vivono entrambi di questi presentimenti di distruzione, l’uno per la caduta della Serenissima Repubblica, che avvenne poco più di tre anni dopo la sua morte, e l’altro per quella l’Ancien Régime francese, che visse in pieno, giungendo ad assistere all’ascesa di Napoleone. Potrebbe essere una via stuzzicante da battere quella di vedere come la raffigurazione del cielo – o la sua mancanza – in certi artisti costituisca il punto attraverso cui, in composizioni controllate e studiate, irrompa inconsciamente un’angoscia collettiva, non propriamente individuale ma sociale.

Possiamo allora provare a riguardare questo dipinto partendo proprio dall’inesprimibile senso di incertezza che aleggia su di esso come un cielo tenebroso. La luce irreale che investe la scena, la stagliarsi in primo piano delle due figure umane in lutto, completamente vestite di nero, la presenza sullo sfondo della piramide di Cestio, un monumento funebre romano che però imita una forma architettonica orientale completamente sconnessa dall’organica armonia dello stile classico, una figura geometrica inespugnabile, estranea e misteriosa come la morte stessa a cui allude, dà all’intero dipinto un aspetto di teatralità quasi onirica. Per un attimo è come se la consapevolezza dell’artista emergesse malgrado i suoi tentativi di incanalarla nelle forme visive consuete; è come se Sablet si rendesse conto che, nella generale lacerazione che sta attraversando il mondo, di colpo la sua pittura diventi una sorta di gioco astratto con corpi umani avvolti in vesti eleganti e con pezzi di storia e di natura sovrapposti e mescolati, un gioco che avviene sull’orlo di un baratro, e la cui intima consapevolezza si esprime nell’estraneità di quel passato che tentava di rendere così familiare attraverso i resti di capitelli corinzi, di statue e di templi riccamente decorati, presso i quali non risuona nemmeno il più lontano ricordo dei numi a cui erano dedicati. Una consapevolezza molto simile la potremo ritrovare, per fare solo un esempio, nei quadri di Giorgio de Chirico. Negli spazi dalle prospettive distorte, vuoti e inquietanti, dove non si trovano nemmeno più esseri umani, o figure che pretendono di essere tali, ma veri e propri manichini, figure vagamente antropomorfe ma senza più volto, circondate da luoghi reali e dotati di intrinseco valore storico – come il castello estense di Ferrara – e da luoghi generici e anonimi, come fabbriche o palazzi moderni, troviamo lo stesso senso di incomprensione ed estraneità: l’enigma è un punto centrale del timbro espressivo di de Chirico perché la realtà, ai suoi occhi, è divenuta un enigma, e perché anche il significato di ciò che era familiare e noto diventa oscuro. De Chirico, ovviamente, opera in un’epoca in cui lo smantellamento delle figure e dei significati propri delle grandi tradizioni artistiche occidentali ha già raggiunto il suo drammatico apice, mentre Sablet si trova ancora all’inizio di questo processo: ma possiamo affermare che la fase matura dell’arte di de Chirico sta a questo dipinto di Sablet come lo schema geometrico di un edificio alla sua struttura concreta, ne costituisce la pura e semplice struttura. Anche i due gentiluomini in nero di Sablet sono in fondo nient’altro che manichini, ma sono manichini che appaiono ancora umani.
Elegia romana è un dipinto che ci interessa anche perché il titolo stesso di quest’opera contiene una parola chiave del tardo Settecento: elegia. Se l’età aurea dell’Illuminismo era stata il secolo della satira, dell’ironia, dello scherzo, della parodia, gli anni settanta inaugurano il periodo dell’elegia, di una malinconia dotta, colta, mediata spesso dalla cultura classica e, allo stesso tempo, animata da impulsi di ribellione dell’uomo verso la società e la cultura, da una passione per la solitudine e la natura. Elegy Written in a Country Churchyard di Thomas Gray ne è il perfetto archetipo poetico – e risale già al 1751. Ma il pilastro principale di questa cultura elegiaca è certamente Rousseau, uno degli intellettuali che, partendo dai ranghi dell’illuminismo francese, si trovò presto a guidare il primo attacco su larga scala verso gli elementi essenziali dell’illuminismo stesso. Questo attacco non fu, propriamente parlando, un attacco eseguito coi mezzi del romanticismo, opponendo cioè il sentimento e l’autenticità del singolo contro la ragione e la società, quanto piuttosto una critica serrata svolta con le armi dell’illuminismo stesso, fu un attacco della ragione stessa verso l’uso irrazionale della ragione. Questa sorta di illuminismo eretico, che fu per Rousseau una sconfitta personale, venendo emarginato e calunniato negli ultimi anni della sua vita, passò però al contrattacco a partire dagli anni ’80, fino a diventare, sia pur in forma volgarizzata, egemone ai primi dell’Ottocento, e ciò è dovuto in misura non piccola al fatto che fu una delle prime prese di coscienza delle moderne dinamiche del nascente capitalismo e del loro portato distruttivo nei confronti della visione del mondo dell’umanesimo classico. Un passo delle Fantasticherie del passeggiatore solitario – uno scritto tardo del Ginevrino – è emblematico da questo punto di vista: Rousseau descrive con grande trasporto la scoperta di una piccola radura in mezzo ai boschi apparentemente incontaminata, il suo abbandonarsi al sonno sul soffice muschio delle rocce, tra il cinguettio degli uccelli, salvo essere disturbato da un flebile ma insistente ticchettìo. Seguendo questo rumore, che si fa via via più forte, il povero filosofo arriverà in breve a scoprire, poco lontano da questo rifugio, una fabbrica di calze in piena attività. On n’échappe pas de la machine. La costituzione dell’opposizione tra natura e cultura, o tra natura e ambiente umano artificiale, assume dunque caratteristiche nuove e viene declinata variamente a seconda della sensibilità degli artisti che recepiscono l’alterarsi del rapporto tra questi termini, sopratutto a causa dell’aspetto sempre più fortemente conflittuale di questa opposizione, che induce gli uni a irrigidire i due poli fino a farne due mondi del tutto eterogenei e incompatibili, e gli altri a cercare delle vie, più o meno riuscite, per provare a comporre anche solo idealmente il contrasto. In ogni caso, la consapevolezza che si fa strada, silenziosamente ma ansiosamente, negli animi degli artisti e degli intellettuali è che, a poco a poco, la natura, intesa appunto come dimensione incontaminata e innocente, sta perdendo la guerra con la civiltà, con la cultura, con l’innaturale umanità del mondo moderno.
Non è allora un caso che i paesaggi, a partire dagli anni novanta del Settecento, assumano un ruolo diverso in pittura. Il cambiamento non è repentino, avviene per passaggi graduali, ma è chiaramente avvertibile, e lo è soprattutto là dove il paesaggio non appare, ad un primo sguardo, l’elemento centrale dell’opera pittorica, il protagonista della scena. Quando Sablet giunse a Firenze, presso la piccola colonia di emigrati francesi, vi risiedeva già un’altro artista di una certa importanza, François-Xavier Fabre (1766-1837), il quale viveva in Italia da alcuni anni, avendo vinto nel 1787 il prestigioso Prix de Rome, il trofeo più ambito da tutti gli aspiranti maestri del classicismo francese. Fabre si distinse soprattutto come ritrattista, e in questo genere alcune sue prove rimangono ancora oggi apprezzate. Tra i suoi ritratti più celebri vi sono quelli di Ugo Foscolo, di Vittorio Alfieri, di cui fu amico, e della moglie di questi, la Contessa d’Albany, con la quale Fabre intrattenne una relazione dopo la morte del famoso drammaturgo. Ad essere sinceri, Fabre è l’artista che più si avvicina ad uno stile neoclassico “puro”, e proprio per questo è forse meno interessante di altri suoi contemporanei. Ha dipinto con maestria molte personalità famose, ma la sua pulizia coloristica e la finezza del suo tratto si inseriscono molto raramente in dipinti originali dal punto di vista compositivo; a parte l’introduzione di qualche gesto più “naturale” e disinvolto, i suoi soggetti sottostanno tutti alle pose evidentemente artificiali e manierate della ritrattistica del Settecento. Ciò che però è più interessante è il fatto che i paesaggi che fungono da sfondo di questi ritratti sono ormai regolarmente dominati da cieli coperti di nuvole, da tramonti appena intravisti all’orizzonte e, più in generale, da quella luce crepuscolare che era affiorata come unicum in Sablet, e che assume tinte tempestose ed echi quasi cosmici. Cieli simili in pittura si erano visti solo in Nicolas Poussin, il grande maestro del classicismo secentesco, che non a caso era divenuto uno dei punti di riferimento dei pittori neoclassici post-rivoluzionari (basti confrontare questi paesaggi col suo Piramo e Tisbe) e saranno il punto di partenza imprescindibile per ogni stilizzazione dell’intellettuale romantico. Per il resto, i ritratti di Fabre, più che custodire un valore intrinseco, hanno piuttosto acquistato un valore storico come modelli di riferimento per la grande ritrattistica borghese del primo Ottocento francese, a partire da Géricault e Ingres, i quali però l’hanno portata ad un livello di gran lunga superiore.


Se vogliamo però vedere a quali risultati porti la ridefinizione dei rapporti tra figura umana e sfondo naturale nella ritrattistica, e come questi risultati si traducano in un’espressione ancora più completa e più artisticamente potente dell’angoscia del secolo, dovremo spostare il nostro sguardo dalla Francia alla Gran Bretagna. Non è un caso che la ritrattistica raggiunga qui le sue interpretazioni più raffinate: già prima della Rivoluzione il ritratto era uno dei settori più prolifici del mercato d’arte inglese, l’aristocrazia, il clero e le fasce più facoltose della borghesia mercantile e finanziaria ne erano i clienti più voraci e regolari, e questa ritrattistica ha sempre mantenuto nella scuola inglese una vocazione puramente descrittiva e distante dalla politica, motivo per cui gli artisti hanno dovuto imparare a padroneggiare in maniera sempre più elegante un numero alquanto limitato di elementi figurativi – il gesto, lo sguardo, le proporzioni tra corpo e sfondo, i dettagli del vestiario, la luce, l’ambientazione. A differenza dell’arte francese, dunque, che a partire dal 1789 diventa un’arte fortemente “politicizzata”, persino in quei generi pittorici non direttamente legati alla storia e alle azioni umane, l’Inghilterra diventa la patria dell’arte apolitica: l’attualità e la storia umana vi hanno spazio al massimo in raffigurazioni celebrative o commemorative, ma il vero fulcro dello sviluppo avviene attraverso l’esplorazione e l’elaborazione della figura umana individuale. La politica vi rimane come una condizione presente-assente, che può essere ricavata tutt’al più in forma di allusione. In questo tipo di scuola l’Inghilterra aveva già generato maestri ineguagliati come Thomas Gainsborough, George Romney e Joshua Reynolds, ma l’artista più originale del periodo rivoluzionario-napoleonico – o, per dirla all’inglese, dell’epoca regency – è lo scozzese Henry Raeburn (1756-1823). Raeburn è un pittore di qualità eccezionale, pur essendo oggi, fuori dalla Scozia e forse dall’Inghilterra, completamente ed ingiustamente dimenticato. I suoi ritratti sono tra i migliori dell’intera pittura britannica e raggiungono un equilibrio ed un eleganza di tocco unici; a mio modesto avviso in molti dei suoi dipinti supera di gran lunga Gainsborough, al quale si potrebbe rimproverare di aver avuto un’inventiva non sempre felice nel trasportare i suoi modelli fiamminghi e olandesi nelle campagne del Kent e del Somerset. Raeburn, per molti versi, seguì nella sua formazione il curriculum classico degli artisti britannici e spese due anni a Roma – tra il 1785 e il 1787, nello stesso periodo in cui anche Sablet risiedeva in città; ma con che differenza in termini di sensibilità artistica! Lì studiò in particolare la produzione pittorica di Michelangelo, notazione in sé tanto più singolare quanto più egli si distanzierà dai canoni della pittura rinascimentale italiana già a partire dalle prime creazioni originali. La capacità di essersi saputo servire in maniera assai libera del proprio bagaglio artistico è uno degli aspetti più interessanti di Raeburn, ed è un altro punto in cui si distingue dal molto più cauto e “conservatore” Gainsborough. Tra i capolavori assoluti dello scozzese va sicuramente annoverato il dipinto intitolato The Archers, un particolare tipo di doppio ritratto raffigurante due giovani rampolli dell’aristocrazia scozzese, i fratelli Robert e Ronald Ferguson, che si distingue per la differenza di posizione che i due soggetti occupano nei confronti dell’osservatore: uno nell’atto di scoccare una freccia rivolto verso destra, l’altro in posizione rilassata con lo sguardo rivolto dritto verso lo spettatore. In questo quadro l’uso del colore è di una squisitezza che possiamo ritrovare solo in Velázquez o in Rembrandt. Per analizzare meglio la trattazione dell’elemento naturale nei ritratti di Raeburn, però, voglio fare riferimento ad un’altra opera, meno audace sul piano compositivo, ma che consente un più facile punto d’accesso al problema, cioè il primo dei due ritratti che il pittore scozzese fece del suo celebre compatriota, Sir Walter Scott, lo scrittore che negli anni venti dell’Ottocento diventerà il romanziere più famoso e letto d’Europa.

In questo ritratto Scott è dipinto in una posa che, pur essendo intenzionalmente studiata, riesce a comunicare allo stesso tempo grande naturalezza, come se lo spettatore avesse davvero sorpreso il poeta in una sosta durante un giro in campagna assieme ai suoi adorati cani. Lo sguardo del soggetto sembra effettivamente catturato da qualcosa di concreto, gli occhi di Scott sembrano davvero rivolti a qualcosa, al punto che persino noi saremmo tentati di girarci nella sua direzione e cercare di cosa si tratti; non abbiamo qui gli occhi di Ugo Foscolo o di svariati altri poeti romantici rivolti ad un generico punto fuori dal campo visivo dello spettatore, preferibilmente in uno spazio superiore, per dare l’impressione che il soggetto del ritratto sia rapito da chissà quali rivelazioni celesti o che tenga in non cale questo nostro mondo basso e terreno. La perfetta gestione della figura del poeta si esprime in una stesura del colore piana, uniforme, controllata, che fornisce un’adeguata impressione di solidità, di realismo “fisico” senza sforzarne il cromatismo. Quando però osserviamo la figura di Walter Scott assieme allo sfondo che lo circonda e che sembra quasi dividere lo spazio della tela in due – una parte più chiara e una più scura – notiamo una netta differenza di resa. Le pennellate si fanno più nervose, mosse, il colore smette di dare definizione alle figure per rovesciarsi esattamente nel contrario, in un elemento di sfumatura dei contorni e di sostanziale fusione – e confusione – degli oggetti, dove i tronchi di due alberi sono l’unico limite divisorio ben distinguibile. La vegetazione retrostante si dissolve in una serie di macchie rosse e marroni – segno che ci fa supporre un’ambientazione autunnale – per poi passare in maniera fluida in una coltre nera d’ombra. Il cielo che compare in secondo piano, sulla sinistra, ben lungi dall’essere un limpido cielo azzurro italiano, è di un colore beige, a tratti grigio, un cielo che potremmo forse immaginare in un nuvoloso tramonto scozzese d’ottobre. Il paesaggio stesso, sfumando progressivamente man mano che ci si allontana con lo sguardo verso l’orizzonte, sembra ad un certo punto confondersi con questo cielo “sabbioso”, opaco. Questo quadro rappresenta un singolare equilibrio tra definito e indefinito, tra chiarezza e confusione, tra stabilità e caos. C’è in questo indubbiamente un elemento circostanziale, cioè la necessità che la figura del committente o del protagonista del ritratto sia ben visibile e descritta con dovizia di dettagli, laddove nel paesaggio all’autore era concesso prendersi più licenze personali. Ma, eccezion fatta per alcuni paesaggi particolarmente arditi di George Romney, in Raeburn la natura diventa consistentemente e decisamente un ambito in cui la familiare definizione degli oggetti e dello spazio vengono destabilizzati e dissolti, come se il pittore avesse risospinto nel paesaggio la necessità di esprimere un’inquietudine ed una deformazione che lottano per venire a galla anche nella figura umana, dove però vengono ricondotte alla forma e al controllo. Se in Sablet le inquietudini dell’artista emergono tramite una certa composizione, e tramite una deviazione dall’atmosfera tipica della sua produzione, qui l’instabilità porta ad una scissione nel gesto stesso del pittore che dipinge il quadro, nel polarizzarsi di due meccaniche, una più classica e realistica per l’essere umano, ed una più libera e romantica per la natura.
Il fluidificarsi e lo sfumarsi del mondo materiale nei paesaggi di Raeburn è uno degli sviluppi tipici di quest’epoca e prelude ad un vero e proprio dissolvimento della materia nei grandi maestri inglesi di una generazione più giovani di lui. Nello sperimentalismo cromatico di William Turner, dove la luce e i colori la fanno da padroni dichiarando una completa ribellione verso la forma che, in talune opere, sfocia quasi nell’arte astratta, e persino in certi paesaggi di John Contsable, un pittore normalmente così realistico, attento ai dettagli vegetali, atmosferici e architettonici, lento e meticoloso nell’elaborazione della maggior parte dei suoi dipinti, troviamo la stessa dinamica che in Raeburn compare sullo sfondo, come un secondo stile che convive con quello più classicheggiante delle figure umane. Non è un caso che questi siano appunto pittori in cui il paesaggio prende il sopravvento e gli esseri umani compaiano solo occasionalmente; e, d’altra canto, sono pittori il cui rapporto con la propria committenza è assai diverso da quello di Raeburn e di tutti i grandi ritrattisti inglesi del Settecento. Soprattutto con Turner sorge in Inghilterra quella che sarà l’ideologia estetica tipica nel mondo industriale ottocentesco, quella dell’artista come svincolato da una committenza fissa, libero di perseguire i suoi propri obbiettivi e di produrre secondo la propria ispirazione: insomma, l’ideale de l’art pour l’art.


Il processo di destabilizzazione che in Raeburn troviamo risospinto nel paesaggio assume dunque caratteri sempre più marcati e liberi fino a toccare un picco oltre il quale l’arte inglese sembra non poter più andare, provocando una reazione contraria dopo il 1848 nel riemergere del realismo, della pittura storica tardo-romantica (Waterhouse e Alma-Tadema) e soprattutto con la sterzata decisamente anti-moderna dei Preraffaelliti, che rappresenteranno, per molti versi, un tentativo di ritorno all’ordine. Se tuttavia estendiamo di nuovo il nostro sguardo alla Francia, potranno venirci incontro dei paragoni interessanti, specialmente laddove la fluidità della natura di Raeburn riemerge, inaspettatamente, proprio in quell’ambito che il maestro scozzese aveva salvato dal dissolvimento cromatico, cioè l’uomo. Vi è in particolare un’analogia che, a mio modo di vedere, si potrebbe osservare tra il ritratto di Walter Scott e il famoso ritratto di Chopin eseguito da Delacroix: qui sembra che tutta l’inquietudine mossa e sfumata del paesaggio di Raeburn si sia concentrata sul volto del grande pianista, al punto che persino la gamma di colori e di tonalità è quasi la medesima. Qui, però, non c’è nessun elemento classico e stabile che funga da ancora e da punto focale del ritratto, l’irrequietudine oscura che alberga nell’animo di Chopin informa di sé anche l’apparenza esteriore dell’uomo. L’effetto finale che produce questo quadro è dunque ben diverso da quello di Raeburn, e ci porta in un arte che si è già avviata in direzione della completa decostruzione della stessa figura umana.

(Continua…)