
Un anno fa aveva inizio la guerra in Ucraina. Quantomeno la guerra aperta e senza quartiere, dato che nel Donbas i proiettili volavano dal 2014; ciò nondimeno, si è trattato di un evento che ha scosso il mondo intero, molto più di quanto non avrebbe potuto fare una proxy war localizzata e controllata. Quella che, nelle previsioni di molti, compreso probabilmente l’alto comando delle forze armate russe, doveva essere un’operazione rapida e inarrestabile, si è trasformata in una tormentosa, tremenda guerra di logoramento. Secondo l’alto commissariato delle Nazioni Unite le sole vittime civili superano gli 8000 morti. I russi continuano a battere i loro pugni insanguinati addosso al fronte.
Non desidero qui fornire nessuna interpretazione delle cause o degli sviluppi internazionali del conflitto, ma vorrei cogliere l’occasione di questo triste anniversario per fare qualche considerazione sull’uso del linguaggio che si è manifestato intorno alla guerra, e in particolare in riferimento all’utilizzo del termine fascismo. Uno degli aspetti più curiosi (e deprimenti) della guerra retorica e propagandistica che si è combattuta a lato di quella armata è stato il reciproco accusarsi tra autorità russe e ucraine di essere dei fascisti o dei nazisti. Questo insulto, pronunciato pubblicamente da Vladimir Putin prima dell’invasione a proposito del governo ucraino, è stato poi sistematicamente confermato e promosso dalla propaganda russa, che ha inquadrato la famigerata operazione speciale come una lotta di principio contro il nazismo: uno dei poster fatti affiggere in bella vista in una località ucraina occupata dai russi recita a caratteri cubitali “Insieme contro il nazismo!”. D’altra parte l’aggressione russa verso l’Ucraina venne paragonata dai media occidentali alle gesta dell’imbianchino austriaco naturalizzato tedesco e molti giornali di prim’ordine, come l’Economist o il New York Times sentenziarono gravemente: “La Russia è un paese fascista!”. Adolf Putler è diventato un nomignolo diffuso tra le truppe ucraine per riferirsi a Putin. Che al livello del dibattito politico più becero la parola “fascista” (o l’analogo nazista) sia divenuta un insulto generico per screditare completamente qualunque avversario non è certo una novità. Ma l’insistenza, l’intensità e la sistematicità con cui è stata sbandierata da ogni parte nel corso dell’ultimo anno spinge a chiedersi se non ci sia qualcosa di più sotto.
Io non credo che il termine fascismo indichi alle nostre orecchie un preciso insieme di proprietà e caratteristiche, quanto piuttosto l’immagine estrema, ma lontana, del male assoluto politico. Ad alcuni vengono in mente le fiaccolate e le marce all’ombra delle svastiche, ad altri i campi di concentramento, ad altri ancora le camicie nere che pestano i dissidenti politici, ma tutte queste immagini, col passare del tempo, sono andate piano piano slittando e mescolandosi insieme a paure più generiche, molto più vaghe e oscure. Sì, perché il fascismo è divenuto soprattutto il nome di una paura, di qualcosa da cui tenersi lontani ad ogni costo: nessuno vuole essere fascista, e ciascuno accusa gli altri di esserlo. Tutte le paure sono rivelatrici di qualcosa di profondo, se le si guarda con un minimo di sangue freddo. Lo stesso vale per la paura del fascismo. Proprio oggi che nessun potere al mondo si sognerebbe di dichiararsi apertamente e pubblicamente fascista, si iniziano a vedere mostri dietro ogni fuscello. Ciò è dovuto al fatto che il fascismo ci ha, per così dire, aperto gli occhi sugli scopi e sui metodi del potere: ci ha fatto vedere con un’evidenza inconfutabile di cosa è capace una macchina repressiva moderna. Questa presa di coscienza ha rappresentato la distruzione di tutte le illusioni e di tutte le speranze verso un potere politico intrinsecamente e completamente giusto: ogni governo contiene in sé, in potenza, tutti i mezzi totalitari di distruzione e controllo. Così, anche quando i nostri bei governi democratici schierano la polizia in piazza armata di tutto punto per disperdere una manifestazione, o quando un giornalista viene cacciato da un quotidiano per aver tentato di pubblicare una storia scomoda, noi non possiamo più ignorare quell’impressione angosciante di parentela, di familiarità di simili accadimenti con le prassi normali dei regimi totalitari fascisti.
Credo che qui però ogni tentativo velleitario di paragonare le nostre società a quelle che nella prima metà del secolo scorso si definivano fasciste naufraghi. A mio avviso la paura quasi isterica del fascismo, l’uso di questa parola come una sorta di condanna universale e senza appello e, d’altra parte, i salti mortali mediatici e retorici per cercare di dimostrare a tutti i costi che noi, chiunque sia questo noi, non siamo fascisti è il segno di qualcosa di diverso. Il fascismo non esiste più come referente fisso, come paradigma politico compiuto; il fascismo è esploso, si è decomposto e sparso in una serie di elementi particolari, metodi, simboli, parole, insinuandosi nelle crepe della società e della cultura contemporanee, riadattandosi al mutato ambiente e producendo nuove articolazioni che si sono potute saldare all’organismo preesistente senza sconvolgerne in maniera rilevante i ritmi interni. Noi vediamo e deploriamo il fascismo a casaccio perché percepiamo oscuramente che esso, in un certo senso, è ovunque, che i suoi frammenti sono finiti nella carne del mondo in cui viviamo, senza essere esattamente in nessun individuo o in nessuna istituzione. Proprio qui, credo, si misura tutta l’inadeguatezza di una formulazione teorica che cerchi di stabilire i caratteri “eterni” del fascismo come quella di Umberto Eco. I mezzi di controllo e di direzione delle masse sperimentati dai regimi fascisti non sono scomparsi nel nulla; ne affiorano le correnti carsiche, qua e là, nei mezzi di comunicazione, nei dibattiti pubblici, negli atti politici dei nostri governi i quali del resto (lo voglio sottolineare) non sono fascisti. In molti paesi del mondo un qualche grado di libertà esiste, non è un miraggio. Ciò non significa appunto che coloro che ne godono siano al sicuro. I nuovi dittatori non hanno bisogno delle marce a passo d’oca e dei forni crematori. In questo contesto la Russia di Putin rimane un paese con spiccate tendenze totalitarie e, non potendo appunto tirare fuori l’armamentario ideologico proprio del nazismo e del fascismo, si è affidata ad una forma piuttosto rozza di etno-nazionalismo e di anti-occidentalismo che, però, ha il vantaggio di avere qualche punto di contatto con il suo passato totalitario sovietico, generalmente ritenuto anti-fascista. In ogni caso, il fascismo, per parafrasare un’espressione di Marx, è un regime di repressione e controllo gravato ancora da pregiudizi locali, ed è proprio questo che, in ultima analisi, ne ha costituito la debolezza. La repressione contemporanea, senza scrupoli, pratica del mondo e degli uomini, fattasi furba coi nuovi mezzi a sua disposizione, non avrà più bisogno delle sciocchezze imbarazzanti che la televisione russa vomita ogni giorno nelle orecchie dei suoi ascoltatori. Le immagini della terra, del popolo, del sangue, del futuro della nazione diventano delle favole ridicole quando bastano l’avidità e l’egoismo a motivare anche il peggiore dei crimini. Per quanto riguarda il futuro della Russia e dell’Ucraina, esso, a prescindere dall’esito della guerra, appare poco incoraggiante: entrambi i paesi usciranno devastati dal conflitto. La Russia, in particolare, sarà socialmente desertificata, economicamente indebolita, intellettualmente asfissiata, interiormente svuotata da anni di corruzione e di paura; che un brusco collasso del regime di Vladimir Putin porti con sé il rischio di cambiamenti in peggio è evidente, ma non è nemmeno una certezza. La tenacia sovrumana dell’opposizione al regime in Russia come all’estero è l’unica cosa che ci può far nutrire qualche speranza per un vero cambiamento e, in un possibile futuro, potrebbe essere proprio la Russia il paese in cui avverrà un reale progresso verso una democrazia degna di questo nome. Io non condivido il pessimismo di coloro che affermano che le cose andranno male perché “è sempre stato così”. Chi pensa deve sempre rimanere in guardia, ma non deve mai sacrificare il futuro sull’altare di un preteso pragmatismo.