Una musica per la ribellione

Tutti abbiamo udito almeno una volta quel pezzo dell’overture del Guglielmo Tell di Rossini, quella melodia così energica, spumeggiante e concitata che sembra quasi una cavalcata al galoppo o un attacco al passo di carica, tra squilli di trombe e fragore di timpani. Credo, però, che raramente si faccia caso ad un ovvio quanto facilmente dimenticabile dettaglio: quella melodia rappresenta la musica che accompagna l’insorgere di un popolo, una ribellione. La trama del Guglielmo Tell, infatti, parla di questa figura semi-leggendaria che avrebbe guidato nel medioevo la rivolta degli svizzeri contro il Sacro Romano Impero, e l’interesse suscitato da quest’opera nell’Europa del primo Ottocento era appunto il suo evidente legame con ciò che occupava le menti e i cuori di tutti all’epoca: l’insurrezione per la liberazione della propria nazione. A dire il vero la parte impetuosa che tutti sappiamo fischiettare a memoria è solo la conclusione dell’overture; la melodia prende le mosse da accenti molto quieti, dolci e persino malinconici. Nelle prime battute si percepisce una sorta di toccante senso di nostalgia o di desiderio. Quando il discorso orchestrale sembra assumere tonalità più chiare e serene l’atmosfera cambia di colpo, un fragore terrificante si abbatte su questa scena elegiaca come una tempesta che sradica gli alberi e fa straripare i torrenti montani. Poi, di nuovo, la furia si smorza, la musica si addolcisce e subentra un fraseggio decisamente più tranquillo, spensierato, pastorale, che sembra voler comunicare l’incanto della campagna bagnata dopo la tempesta. Daccapo, però, qualcosa di nuovo irrompe bruscamente: è il canto della ribellione, lo squillo di trombe che chiama gli svizzeri alle armi, il radunarsi degli insorti e la loro marcia gioiosa verso la vittoria. A mio avviso, al di sotto del più ovvio piano “pittoresco” e “impressionistico” di questa overture, cioè dei legni che imitano il pigolare degli uccelli, o dei violini che sembrano dipingere davanti ai nostri occhi verdi vallate e ridenti pascoli, vi è qualcosa di più, un contrasto che credo si possa avvertire proprio in rapporto all’esplosione finale. La prima parte di questa overture rappresenta, per così dire, una visione del mondo naturalistica e fatalista; nello smielato quadro campestre che traccia, la tempesta, il male, il dolore irrompono come qualcosa di esterno e necessario, qualcosa inscritto nelle leggi della natura, e dopo il suo sfogo il mondo torna alla tranquillità di prima, tutto ha il suo posto e il cambiamento si può solo subire. Rossini, con grande astuzia, ha però insinuato fin dall’inizio il sospetto che qualcosa in tutto ciò non funzioni, che in questa visione “eternizzante” e fatalistica del mondo vi sia l’oscuro presentimento che un desiderio viene frustrato o che un’ingiustizia rimanga invendicata. Con la parte finale è come se la bella cartolina turistica venisse messa da parte e la melodia cominciasse a fare sul serio, è come se lì avesse effettivamente inizio l’opera, lì il compositore scopre le sue carte. Rossini ha immaginato la ribellione degli svizzeri come un evento profondamente gioioso, da cui sgorgano forze nascoste, e in cui il mondo smette di vivere al ritmo delle caprette e dei pastorelli per mettersi a correre a passo di carica. Non è un caso che Rossini fosse un compositore immensamente popolare in Francia, tanto più che il Guglielmo Tell precedette di poco meno di un anno la rivoluzione di luglio del 1830.

A mio avviso noi abbiamo quasi completamente perduto la percezione della dimensione gioiosa della ribellione, e nonostante in certi ambienti radicali si produca una vasta retorica sulla disobbedienza o sulla rivoluzione, la ribellione è vista con sospetto e disapprovazione crescenti. Già nel scrivere queste righe posso immaginare che chi mi legge possa storcere il naso o aggrottare le sopracciglia, perché al giorno d’oggi, per quanto si possa ammettere la legittimità di certe proteste, la ribellione violenta è già di per sé una cosa di cui non si può davvero pensar bene. Nei mass media, e lo possiamo verificare proprio in questi giorni con quanto sta avvenendo in Francia, i gesti e le manifestazioni di ribellione vengono sempre più dipinti come qualcosa di quasi-illegale, pericoloso, intrinsecamente sovversivo, ed anche quando si citano quelle che possono essere le motivazioni legittime che le animano, si mette sempre in primo piano la macchina che brucia o il manifestante che prende a sassate la vetrina di un negozio. Più in generale, lo spingere la ribellione nell’ambito della sovversione violenta e criminale rientra in una tendenza diffusa in molti governi occidentali contemporanei, dove ormai si sta celebrando un divorzio tra istituzioni politiche e base popolare nazionale. Le parole di Emmanuel Macron all’inizio di queste sommosse, che tra le proteste in strada e il Parlamento lui avrebbe sempre e solo riconosciuto quest’ultimo – argomento che appare perlomeno ridicolo, dato che il punto focale delle proteste è proprio l’uso da parte del presidente francese di poteri esecutivi speciali che gli permettono di saltare l’approvazione del Parlamento sulla riforma delle pensioni – queste parole, dico, rivelano qualcosa di assai significativo e, lo sottolineo, non limitato alla Francia, e cioè che nelle nostre democrazie il popolo, il demos, che dovrebbe fungere da base della sovranità, è visto sempre più come un elemento di disturbo, un elemento indesiderabile, come l’irrompere di una illegittimità nell’attività politica normale e quindi come qualcosa di impolitico e di extra-politico. L’ideale di un governo democratico contemporaneo sarebbe un governo tecnico puramente burocratico che potesse ignorare del tutto il popolo e l’opinione pubblica, o dove addirittura fosse il popolo stesso a chiedere di essere manipolato dalla burocrazia governativa. Questa fantasia proibita si spiega anche per il fatto che il popolo non è un blocco monolitico e saldo, ma è un composto multiforme e ondivago di vari interessi, di varie esigenze e di numerosissime istanze politiche, anche incompatibili tra loro, e dunque non è qualcosa di riducibile a procedure legali standardizzate e dicotomiche – o legale o illegale, o economicamente vantaggioso o dannoso, o morale o immorale, ecc…

Noi in ultima analisi stiamo assistendo a quella dinamica segnalata già diversi anni fa da Jean Baudrillard quando affermava che nel nostro mondo si sta dissolvendo una cultura opposizionale degna di questo nome, che sembra scomparire ogni grande Alternativa all’esistente, e che la ribellione sia sempre più ridotta e declassata al vandalismo, al teppista, al terrorista folle e sanguinario, allo scoppio di malcontento isolato e ideologicamente irrilevante. La ribellione diventa appunto il semplice mettersi a spaccare, quasi come in un accesso di follia, vetrine e macchine. Io sostengo che proprio per questo sia fondamentale tornare a comprendere la gioia della ribellione, il fatto che nella ribellione risorga – sia pure temporaneamente – un senso di solidarietà e di amicizia che normalmente viene sotterrato sotto l’anonima indifferenza della vita cosiddetta “normale”, quella vita in cui siamo tutti estranei gli uni per gli altri, e dove le cose brutte che succedono sono come una tempesta, un evento che capita che ci piaccia o no e che dobbiamo semplicemente sopportare. La ribellione è qualcosa di più della resistenza, posto che anche la resistenza non è solo un’attività puramente passiva; la ribellione è il riconquistarsi non solo uno spazio pubblico, ma anche il diritto ad una coesione politica non determinata da agenti terzi, è la costruzione di uno stato in cui il popolo non è solo un potenziale criminale e dove si possa ricacciare indietro l’organo governativo che voglia imporre il proprio (dis)ordine su ogni aspetto della vita individuale. So bene che la nostra epoca, che non è un’epoca di grandi compositori e di grandi ribellioni, non può più scendere in strada al suono delle gioiose note del Guglielmo Tell, e che contro la polizia in tenuta anti-sommossa e contro i lacrimogeni non si può certo sperare che lo sventolio di qualche bandiera e qualche cartello facciano un grande effetto, ma non approvo nemmeno il cinismo estenuante di quei commentatori che già aspettano al varco il fallimento delle proteste con un sorriso di miserabile condiscendenza. Il popolo francese sta cercando di scuotersi di dosso il giogo di una dittatura amministrativa, sta difendendo una propria prerogativa, quella di non subire leggi che non abbia democraticamente accettato, e lo sta facendo con la durezza che la situazione impone. Da questo punto di vista, credo che l’episodio maggiormente carico di una valenza simbolica, quello che sembra meglio sintetizzare le aspettative di questa ribellione, è il rogo del portone d’ingresso del municipio di Bordeaux: il popolo vuole abbattere le barriere che lo separano dalle istituzioni pubbliche, vuole impedire a chi governa di nascondersi nei propri palazzi. La violenza non va mai glorificata, ma coloro che si risolvono a farvi ricorso in questo caso non hanno trovato altri mezzi per farsi ascoltare, e per questo meritano la nostra approvazione e il nostro interessamento. Anche questa ribellione merita la sua musica.

Una opinione su "Una musica per la ribellione"

  1. Prendo nota: “abbiamo quasi completamente perduto la percezione della dimensione gioiosa della ribellione, e nonostante in certi ambienti radicali si produca una vasta retorica sulla disobbedienza o sulla rivoluzione, la ribellione è vista con sospetto e disapprovazione crescenti”.

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