Quattro scrittori tedeschi: Chamisso

Un giovane uomo arriva dopo un viaggio in nave in terra straniera per tentare, con una lettera di raccomandazione in tasca, di catturare la benevolenza di un ricco magnate del posto e di migliorare la sua modesta fortuna. A casa di quello che dovrà essere il suo protettore è in corso un evento mondano che è la somma di tutti i cliché sugli eventi mondani organizzati da riccastri: ci si scambiano complimenti e cortesi amenità, “si parlava con serietà di cose futili, più spesso si parlava futilmente di cose serie”. La reginetta dell’evento, la bella Fanny, è una ragazzina viziata che tratta tutti come domestici e camerieri. Ad un tratto il conte chiede un cannocchiale per osservare meglio una nave in porto, visibile dal colle su cui si trova casa sua. Uno sconosciuto individuo in marsina grigia, dall’aspetto smunto e dai modi incredibilmente servizievoli, tira fuori di tasca con la massima naturalezza un bel cannocchiale nuovo di zecca. Il nostro giovane e spiantato eroe sembra essere l’unico ad accorgersi di questa stranezza. Chiede ad altri invitati notizie sullo sconosciuto, ma nessuno sa nulla, e nessuno se ne cura granché. Questo misterioso individuo diventerà oggetto dell’attenzione sempre più incredula del giovane ospite quando, in rapida successione, tirerà fuori dalla stessa tasca, senza mai minimamente scomporsi, un ampio tappeto turco decorato, stanghe, pioli, tela e tutto l’occorrente per montare un gazebo e infine, incredibile a dirsi, tre cavalli da corsa. Ma la cosa più incredibile di tutte sarà la proposta che lo sconosciuto misterioso farà al nostro eroe, dopo averlo avvicinato sempre con toni esageratamente cortesi ed umili: sarebbe disposto a mettere in vendita la sua ombra? Possibile? Voler comprare un’ombra? Che sciocchezza è mai questa? E cosa se ne può fare una persona dell’ombra di qualcun’altro? Ma lo sconosciuto è circondato da una strana aura ammaliatrice, che sembra rendere in fondo perfettamente ragionevoli le sue offerte, e poi c’è la tasca, quella spaventosa tasca dalla quale, chissà come, tira fuori quello che vuole. In cambio dell’ombra egli è disposto ad offrire il Borsello della Felicità, un oggetto di fiaba al quale si possono attingere senza fine monete d’oro. Il nostro protagonista pensa che quest’uomo gli stia facendo un’offerta del tutto folle, che nessuno si possa prendere un’ombra come ci si porta via un cappello… eppure è abbastanza temerario da credere che farà un affare, che in cambio di qualcosa di completamente inconsistente avrà un mezzo per diventare immediatamente e magicamente ricco, senza sforzo, senza umiliazioni, senza doversi togliere il cappello davanti a baroni e parvenu arricchiti e cafoni. Quando accetta lo scambio, succede però l’inaspettato: lo sconosciuto, con la stessa pacatezza con cui ha tirato fuori dalla sua tasca cannocchiali e cavalli da corsa, stacca delicatamente l’ombra del suo allibito interlocutore dal terreno come fosse un foglio di carta velina, lo arrotola con la massima cura, se lo mette in tasca e, congedandosi cortesemente, se ne va. Questo, in sintesi, il punto da cui ha inizio il racconto della stupefacente storia di Peter Schlemihl – questo il nome del nostro protagonista -, il gioiello narrativo di Adelbert von Chamisso. Il tono favolistico e surreale di questa storia non deve farci pensare ad un semplice scherzo letterario: questo racconto, attraverso il meccanismo narrativo dell’ombra perduta, fornisce una raffigurazione della solitudine e dell’emarginazione che lo rendono degno di stare accanto ai grandi romanzi di Dostoevskij. Che cosa significa, dunque, perdere la propria ombra?

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Agiografie

Tra la fine dell’evo antico e i primi secoli del medioevo, in concomitanza con il diffondersi del monachesimo, sorse un particolare genere letterario chiamato “agiografia”, ovvero il racconto delle vite dei Santi della Chiesa. Le agiografie, che venivano scritte per precisi motivi religiosi e pastorali, non erano concepite come biografie “realistiche” – almeno nel senso in cui si intenderebbero oggi; non rispondevano ad un interesse erudito o ad un fine moralmente edificante, come le biografie di Plutarco, né erano composte come opere di propaganda politica, come ad esempio la vita dell’imperatore Costantino di Eusebio di Cesarea. In queste opere, ciò che assumeva importanza primaria era la descrizione di un certo individuo come testimone della verità dell’insegnamento di Cristo e come capace di operare portenti derivati dalla forza della fede. In altre parole, come un uomo o una donna potessero, a loro modo e in contesti diversi da quelli di Cristo, ripetere i suoi miracoli e confermare, così, la sua divinità.
Rileggere oggi queste opere può fare uno strano effetto, soprattutto perché gran parte degli eventi miracolosi da esse descritte hanno un valore simbolico rintracciabile in precisi riferimenti biblici che per noi risultano alquanto oscuri e che sono paragonabili alle sottigliezze allegoriche dei passi più ardui della Divina Commedia – un’opera che a sua volta ha tratto molto dalle agiografie medioevali. Ciò nondimeno, molte vite di santi erano lette con grande passione e reverenza nei secoli passati, specialmente quando si trattava di santi estremamente vicini alla devozione popolare come San Francesco, la cui agiografia, la cosiddetta Legenda maior, fu scritta da un teologo di primo piano come Bonaventura da Bagnoregio.

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Don Marzio e la geopolitica

Mi limito qui, a puro scopo d’intrattenimento, a trascrivere una scenetta tratta da La bottega del caffè di Carlo Goldoni. La commedia, scritta in italiano, ruota attorno al personaggio di Eugenio, un mercante di modesta fortuna col vizio del gioco d’azzardo, che viene costantemente infinocchiato da un intrigante e permaloso gentiluomo napoletano, Don Marzio, e da un sedicente aristocratico torinese, il Conte Leandro. Ricordo en passant che quando Goldoni componeva la commedia (1749-1750) si era appena conclusa la Guerra di Successione Austriaca, una guerra durata otto anni e causata, in estrema sintesi, dalle mire espansionistiche di Federico di Prussia, che infatti riuscì a fregare la Slesia all’Austria.

Don Marzio: Cosa v’è di nuovo delle cose del mondo?
Il Conte Leandro: Io di nuove non me ne diletto.
Don Marzio: Avete saputo che le truppe moscovite sono andate ai quartieri d’inverno?
Il Conte: Hanno fatto bene. La stagione lo richiedeva.
Don Marzio: Signornò, hanno fatto male! Non dovevano abbandonare i posti che avevano occupato.
Il Conte (con una punta di sarcasmo): …è vero, dovevano soffrire il freddo per non perdere l’acquisito.
Don Marzio: Signornò, non avevano ad arrischiarsi a tal dì col pericolo di morire nel ghiaccio.
Il Conte: Dovevano quindi tirare avanti…
Don Marzio (ridacchiando): Signornò. Oh che bravo intendente di guerra! Marciare nella stagione d’inverno!
Il Conte (spazientito): Dunque, che cosa avevano da fare?
Don Marzio: Oh… lasciate che io guardi una carta geografica e poi vi dirò per l’appunto dove dovevano andare.
Il Conte (a parte): Che bel pazzo!

Davanti alle macerie

Mai come davanti alla guerra tutti i pensieri, tutte le interpretazioni politiche o psicologiche, tutti i propositi più o meno buoni risultano nella loro evidente fragilità, persino nella loro grottesca inadeguatezza. Nessuna predica, dunque, nessuna lamentosa litania in difesa della democrazia sotto attacco né elucubrazioni geopolitiche, non intendo muovere piccoli carri armati e aerei immaginari su una mappa dell’Ucraina per giocare a Risiko. Tuttavia proprio l’orrore richiede un appello alla ragione e la ferma decisione di continuare a voler capire anche di fronte alle innumerevoli tragedie individuali, non per farle sparire sotto concetti astratti, ma proprio per vendicare le lacrime inascoltate, i dolori silenziosi che non hanno avuto il privilegio di un articolo su The Guardian o su Der Spiegel. Solo alcune brevi riflessioni per provare a inquadrare quanto sta avvenendo (un evento ancora in evoluzione e dall’esito per il momento incerto) da un punto di vista diverso.

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Soprammobili filosofici

Da tempo ormai, per sempre più persone, la via d’accesso privilegiata alla filosofia è costituita da un insieme di “prodotti” culturali che spaziano attraverso vari media – dai libri cartacei ai social, con tutto ciò che vi è nel mezzo – e che rispondono a forme di divulgazione filosofica caratterizzate, pur nelle differenze di orientamento, da contenuti e finalità analoghe: portare al grande pubblico un tipo di idee che possano essere messe in pratica per migliorare la nostra vita quotidiana. Possiamo chiamare questi prodotti culturali filosofie della cura di sé o self-help filosofico. Contro una filosofia come disciplina puramente accademica, ammantata di tecnicismi e impigliata in dispute che, francamente, non hanno nessun interesse per l’uomo della strada, queste filosofie della cura di sé cercano invece di essere esercizi di vita – uso qui la parola esercizio con esplicito riferimento a Pierre Hadot, uno degli auctores di queste filosofie. Non più tomi polverosi e toghe professorali, bensì parole semplici e idee chiare che tocchino gli interessi e i bisogni di tutti, e che possano fornire un orientamento in questo nostro mondo così confuso – così confuso, da non sapere nemmeno più dove collocare un sapere come la filosofia.
Devo confessare, dato che preferisco giocare con il mio lettore a carte scoperte, che nutro qualche riserva su queste forme di self-help filosofico e che, forse, esse sono per molti versi più dannose che utili. Questa affermazione può sembrare strana, specialmente a chi, addetto ai lavori o non, abbia qualche familiarità con simili progetti divulgativi e semi-filosofici: che male ci potrà mai essere, si chiederà, in qualcosa che, nel peggiore dei casi, fornirà uno spunto per riflettere o avvicinerà una persona in più ad una domanda filosofica? Ora, è chiaro che non tutto in queste filosofie della cura di sé sia male, e premetto subito che per me non si tratta di antipatia verso la divulgazione in generale; ma prima di benedire le buone intenzioni mi permetto di esaminare quali siano i mezzi con cui vengono realizzate, dato che, si sa, la via per l’inferno è asfaltata col bitume di milioni di buone intenzioni.
Se voglio esporre qualche osservazione critica verso queste forme di filosofia della cura di sé, non è dunque per una forma di elitismo snob, quanto piuttosto perché, precisamente per via della loro vasta diffusione, esse forniscono alcuni indizi significativi sull’idea che il grande pubblico si fa della filosofia in generale, di quali siano i suoi compiti, di che cosa ci si debba aspettare da essa, e di quale ruolo debba assumere il filosofo nella nostra società. Proverò a mostrare che le filosofie della cura di sé sono, sia pure in grado variabile, leggibili all’interno di uno specialissimo processo di mercificazione del sapere, un processo di mercificazione che, beninteso, non si esplica in forme rozze, volgari, “piratesche”, ma in maniera molto più sofisticata e spiritualizzata, nel quadro di un rapporto con la filosofia che è appunto quello di una – almeno apparente – critica alla mercificazione.

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