
Nel romanzo di José Saramago intitolato Saggio sulla lucidità lo scrittore portoghese immagina una nazione puramente ipotetica e innominata in cui, nella più completa costernazione del paese e delle autorità, alle elezioni politiche l’83% degli elettori vota scheda bianca. Attenzione: non si tratta di mettere in scena il dramma di un astensionismo di massa, ma di un voto intenzionalmente vuoto, di un non-voto positivo. L’affluenza alle urne registrata durante le votazioni è prodigiosa, ma la maggior parte della gente vota scheda bianca, vota contro tutti i partiti istituzionali esistenti, che nel romanzo sono genericamente chiamati Partito di Destra (pdd), Partito di Centro (pdc) e Partito di Sinistra (pds) – e i partiti politici reali delle nostre democrazie non sono, di solito, molto più fantasiosi nell’onomastica. Questo evento sconvolgente causerà, nel corso del romanzo, una crisi politica che assumerà nel giro di breve i tratti di una guerra fredda, in cui il governo e i vertici dei partiti si troveranno ad essere come delle forze occupanti straniere in paese nemico, e questa tensione sarà aggravata dal fatto che, dato il segreto dell’urna, nessuno avrà modo di individuare chiaramente chi siano coloro che hanno votato in bianco; senza svelare nulla di integrale della trama, basti sapere che ad un certo punto persino due ministri del governo in carica – tra cui quello della cultura, generalmente trattato come una palla al piede dai suoi colleghi – ammetteranno di aver votato in bianco. Ora, le elezioni politiche italiane del prossimo 25 settembre delineano un quadro abbastanza avvilente di discredito della politica parlamentare che, come ormai tutti hanno compreso, ha favorito l’ascesa dell’estrema destra, cioè della parte politica a cui storicamente ci si è rivolti in momenti di disperazione e confusione, e in questo contesto vale la pena di chiedersi se la vicenda narrata in Saggio sulla lucidità non mostri un nuovo interesse e forse persino una possibile via d’azione in uno scenario così sconfortante. L’Italia, più di molti altri paesi, si trova al punto in cui la maggior parte della popolazione ha perso ogni fiducia nelle formazioni politiche che la rappresentano e in cui il senso civico è sempre più ridotto a brandelli: date tali circostanze un voto in bianco, un voto che dice chiaramente “io non scelgo nessuno dei candidati presenti, nessuna delle opzioni che mi vengono offerte” sembra una risposta radicale, l’unico atto democraticamente accettabile per far capire alla classe dirigente che deve avvenire un cambiamento generale e profondo. Ammetto che per un po’ questa mi è sembrata una possibilità allettante, e che avrei voluto appellarmi ai miei compatrioti per indurli a votare scheda bianca: se non c’è alcuna scelta accettabile salvo il nostro onore sarebbe del tutto legittimo cercare di mettere sul tavolo, nella maniera più netta possibile, i termini di un completo disaccordo con i partiti esistenti. Ma poi mi sono chiesto: è davvero questa la scelta migliore? Votare in bianco può essere davvero un atto di dissenso realmente efficace?
La crisi della politica italiana, se così la vogliamo chiamare – in un paese in cui ormai da anni si bisticcia e si discute sulla crisi della politica, al punto che sembra ormai di vivere in un’eterna crisi – non è certo un fenomeno recente, ed è anzi un processo in atto, almeno con una sintomatologia evidente, da almeno trent’anni. La progressiva degenerazione del discorso politico pubblico e l’ormai ripetuto scivolare della politica in un groviglio di interessi personali, di casta, di azienda o di famiglia, hanno trasformato il concetto stesso della politica, agli occhi degli italiani, in qualcosa di losco e di sporco, qualcosa di così sporco da infangare chiunque la tocchi, eccezion fatta per alcune figure di indiscussa moralità, o che tali vengono ritenute, tra cui il Presidente della Repubblica, il quale dai mass media e dai singoli politici viene sempre incensato come un individuo semi-divino e saggio oltre ogni dire. Ad ogni modo, questo processo ha, a mio avviso, mostrato chiaramente negli ultimi anni i suoi effetti più vasti, ed innanzitutto ha mostrato la decomposizione della struttura partitica come quadro di riferimento essenziale per l’esercizio del potere democratico. I partiti, come organizzazioni classicamente intese dell’azione politica di massa, sono oggi in gran parte ritenuti consorterie affaristiche e cricche criminali, in cui le poche persone oneste sono accuratamente tenute lontane dai posti chiave, e, di conseguenza, è ormai consueto ritenere che la volontà popolare, gli interessi del paese e le esigenze dei vari corpi sociali non vi siano rappresentate. Il motivo principale che ha spinto il Movimento 5 Stelle a mantenere appunto il nome di “movimento” e a rifiutare sempre, almeno formalmente, quello di partito è stato precisamente questo; esso doveva porsi come un movimento popolare di protesta contro il gioco perverso dei partiti, come una riappropriazione degli organi parlamentari da parte del cittadino medio – con le conseguenze e gli esiti che si sono visti. Anche il Movimento, a dispetto del nome, ha finito per comportarsi de facto, sia pure con occasionali anomalie, come un partito classico.
Alla disintegrazione della compattezza e della credibilità della forma partito come organo di rappresentanza, ha corrisposto di pari passo e in parte come suo effetto, la decadenza e la dissoluzione del linguaggio politico. Di nuovo, non da ieri, abbiamo assistito alla riduzione della comunicazione politica a brodaglia post-moderna e post-ironica, a barzelletta, a propaganda senza capo né coda – così sconclusionata da risultare a volte persino dannosa per gli attori che l’hanno promossa -, a lotta disordinata e talora goffa per quello che, negli USA, è stato chiamato “moral high gorund“, il punto da cui un gruppo politico può fare la predica a tutti gli altri, appropriarsi di retoriche vittimistiche esasperate e sconnesse, e ostinarsi selettivamente in un moralismo da encefalogramma piatto, senza nessun riguardo per le minoranze o le vittime reali strumentalizzate a tal fine. Il vittimismo e il populismo, in questo circo comunicativo, hanno fatto fronte, in maniera sempre più marcata, ad uno svincolarsi degli interessi di partito da quelli del “popolo” – comunque lo si voglia definire – e, in ogni caso, una non-corrispondenza o una corrispondenza solo parziale e occasionale tra obbiettivi di partito e interessi della sua base elettorale. Del resto i partiti stessi hanno cercato, con le unghie e con i denti, di sostenere un ruolo che i loro stessi quadri dirigenziali sapevano non essere più quello reale, cioè appunto quello di farsi portavoce diretti, per quanto possibile, delle esigenze della cittadinanza, della gente comune. I partiti delle nazioni economicamente sviluppate e politicamente rilevanti su scala mondiale si trovano ormai coinvolti in una serie di dinamiche trans-nazionali e a-politiche (o extra-politiche) che sono in larga parte fuori dal controllo di un partito, di un governo o di una istituzione nazionale; ne sono esempi il rapporto dei personaggi politici e dei partiti con i social media, con i grandi potentati economici, con le ONG… L’irrompere di questi fattori sulla scena politica internazionale ha reso evidente nel corso degli ultimi anni come lo Stato-nazione, fosse anche inteso come operante all’interno di una concertazione internazionale legittimata e regolata da patti e norme, non è più il vero padrone della politica; costituisce piuttosto una delle pedine in gioco, e si riduce sempre di più a rappresentare interessi limitati, parziali. Lo Stato non è più, come nell’Ottocento, il tentativo di far prevalere l’universale sulle particolarità degli individui e dei ceti sociali.
Credere che, in congiunture storiche come la nostra, evitare il peggio sia l’unica cosa che rimane da fare, è una pericolosa ingenuità. Questo criterio insensato ci ha spinto ad accettare, l’uno dopo l’altro, governi formati da coalizioni sempre più improbabili e con obbiettivi sempre più delimitati nel tempo e nella forma attuativa. La nostra politica, ormai, è completamente incapace di vedere al di là del mese prossimo. L’apparente pragmatismo addotto a giustificazione dagli esponenti di tutti i partiti e di tutti i governi è in effetti solo la conferma di questa bancarotta di idee e di capacità concrete: “Noi non guardiamo alle ideologie, ma ai problemi concreti del paese!”. Come se questa non fosse l’asserzione più ideologica di tutte… La pandemia ci ha fatto digerire per quasi due anni lo spostamento sempre più forzato del discorso politico su problemi prossimi e contingenti – nonostante, come ho già osservato, questa prassi fosse già all’opera da molto prima – ma ora i nodi vengono al pettine, e quella accomodante predisposizione a tollerare molte cose sgradite pur di evitarne di peggiori non ci servirà più a nulla. Un voto in bianco, sempre ammesso che raggiunga una quota abbastanza rilevante per diventare oggetto di attenzione da parte dell’opinione pubblica, potrebbe certo rappresentare un gesto di protesta. Ma è già passato il punto in cui la semplice protesta era sufficiente o in cui si poteva sperare che ottenesse anche solo qualche briciola di riconoscimento. In Italia le proteste e le lamentazioni, per organizzate e decise che siano, vengono sempre addomesticate, e il malcontento, per dritto o per storto, sempre accontentato. Un atto politico puramente negativo, una semplice dichiarazione con cui una parte della cittadinanza rifiuti la situazione presente, sarebbe ben lontana dal significare davvero qualcosa. Ciò che è urgente, è elaborare seriamente un’alternativa al sistema sociale e politico in cui ci troviamo, e all’interno del quale la democrazia si sta limitando a vegetare finché il fascismo – fosse anche nella sua forma castrata e imborghesita – sconfitto ma mai veramente eliminato, che continua a dormire sotto le colonne dell’Olimpo parlamentare come il gigante Tifeo, arrivi infine a risvegliarsi e a rimettersi sulla poltrona scacciando gli dèi, gli eroi e i sottosegretari.
Si potrebbe allora giustamente chiedere: quale dovrebbe essere questa alternativa? Cercare di rendere l’idea di qualcosa di radicalmente nuovo, di una conformazione della società e della sovranità che non esiste ancora, è estremamente difficile, soprattutto quando si tratta di un’impresa a cui quasi nessuno ha dato grande importanza e che quasi nessuno ha seriamente tentato, tanto è scontato per noi vivere nel mondo in cui viviamo, con le regole cui già sottostiamo. Voglio concludere questa breve riflessione sottolineando, in via del tutto generale, tre punti:
1) Se una repubblica, per definizione, dovrebbe essere una forma costituzionale in cui la sovranità è esercitata dal popolo, e in cui i membri di detto popolo devono godere di un’uguaglianza giuridica di fronte alla legge, ciò significa che in una repubblica è assolutamente imprescindibile istituire mezzi per ridurre il più possibile la disuguaglianza materiale. Non sto parlando qui solo di stipendi o opportunità lavorative. Nessun popolo può esercitare alcuna sovranità se non è educato a farlo, né se la maggior parte della gente ritiene che le questioni che hanno a che fare con la cosa pubblica non le riguardino, né tanto meno se detto popolo non nutre la minima fiducia verso le istituzioni che dovrebbero governarlo. Il senso civico non dovrebbe essere inculcato come un mucchio di prediche ad un branco di bambini rincretiniti. Trattare le persone come minorati incapaci di capire, le rende davvero tali. A ciò si aggiunge ovviamente l’ormai famigerato problema delle estreme diseguaglianze economiche e delle concentrazioni di ricchezza nelle mani di un ristrettissimo numero di persone: non credo nemmeno sia necessario ripetere che, in un paese dove un singolo individuo guadagna in un mese ciò che altri cento guadagnano in un anno, non può esistere una reale eguaglianza, nemmeno giuridica, dato che la forma del diritto viene sempre influenzata da ciò o coloro a cui si applica. Ciò significa, dunque, sottoporre a mutamento il nostro sistema economico; a proposte del genere si pensa di solito a rivoluzioni bolsceviche o a terrori rossi, ma soluzioni del genere oggi non possono nemmeno essere prese sul serio. Cambiamenti così importanti non possono più essere compiuti da un singola nazione o da un partito: extat da quanto affermato sopra.
2) La dissoluzione degli istituti democratici è strettamente legata alla dissoluzione dei vincoli sociali che formano la fisionomia generale di un paese. Negli stati del passato vi erano varie strutture che mediavano tra i singoli, cioè tra l’atomo del corpo sociale, e lo Stato, il genus generalissimum della scala sociale: famiglia, ambiente di lavoro, corporazione, comitato comunale, associazione religiosa o culturale, arrivando via via ai partiti politici, ai grandi corpi sociali statali (esercito, chiesa, amministrazione pubblica) e, al vertice, al governo stesso. Al giorno d’oggi il graduale discredito del partito ha creato una lacuna nella dinamica di mediazione, lacuna che, in verità, va a troncare i rapporti socio-politici ad un livello abbastanza alto della scala, cioè tra direzione del partito, tra porzione del partito che è attivamente parte dei processi decisionali, e tra la base elettorale. Un tempo, il lavoro svolto nelle sezioni territoriali e locali di un grande partito forniva nel peggiore dei casi un legame effettivo, un nesso reale tra i membri del partito e i suoi dirigenti, l’elettorato era perlopiù letteralmente presente nei dibattiti interni che portavano a far prevalere una linea o l’altra. Oggi, sebbene questa presenza vi sia ancora, i quadri dirigenziali hanno un’indipendenza decisamente maggiore rispetto alle sezioni locali e regionali, ed anzi sono spesso questi ultimi a imporre senza tanti scrupoli una linea da seguire. Quando una linea politica non è più approvata da una parte sufficientemente importante di un partito, in Italia, solitamente, avviene una scissione e non un cambiamento di rotta interno al partito stesso. Certo, i mezzi d’informazione e di comunicazione odierni permettono ad un elettorato di essere costantemente informato sulle azioni e le decisioni del proprio partito, ma costituiscono anche un mezzo che permette di schermare, manipolare o tenere nascoste certe informazioni. Un elettore che conosca l’operato del proprio partito solo tramite le chat di Whatsapp, i blog, i canali Instagram, ecc… e che partecipi ai dibattiti per mezzo di questi media, di solito non riveste una parte davvero attiva. Dinamiche analoghe si possono osservare anche nei sindacati, nelle associazioni di lavoratori o consumatori, nei grandi enti amministrativi. Una democrazia in cui la popolazione abbia effettivamente una voce nell’esercizio della sovranità deve dunque mutare in maniera rilevante le proprie unità sociali di riferimento, il che dovrebbe necessariamente tradursi anche in un mutamento della concezione territoriale e materiale dell’organizzazione della popolazione.
3) Non vi può essere una vera democrazia laddove la sicurezza, pubblica o personale, sia ritenuta più importante della libertà. Commentare questa asserzione richiederebbe più di qualche osservazione o di qualche pagina di osservazioni e argomentazioni.